Regia di Rupert Wyatt vedi scheda film
Pur rimanendo nel segmento minato dei blockbuster, il risultato possiamo definirlo un gradevolissimo ibrido fra divertimento e impegno che è riuscito a centrare pienamente entrambi gli obiettivi, fornendo per altro davvero nuova linfa a un’impresa che io personalmente avevo immaginato (evidentemente sbagliando) persa in partenza.
Il pianeta delle scimmie, vero e proprio “cult” non solo fantascientifico della seconda metà del secolo scorsogirato da Franklin J. Schaffner nel 1968 e sceneggiato da Michael Wilson e Rod Serling a partire dal romanzo di Pierre Boulle, con il suo rovesciamento radicale della gerarchia uomo/animale e il bellissimo e inquietante finale pieno di apocalittiche premonizioni sulla stupidità del genere umano e le disastrose conseguenze che ne potrebbero derivare per troppa presunzione e sete di onnipotenza, è entrato a buon diritto nell’immaginario collettivo di intere generazioni di spettatori diventando un classico del genere per quel suo essere un thriller sociologico futuribile, ma allo stesso tempo anche una favola filosofica e politica che, ambientata in un domani ancora lontanissimo, parla però di un presente non tanto immaginario pieno di incertezze e di azzardi che ci rimanda direttamente a quello in cui stiamo vivendo.
Il successo del film fu davvero planetario, ed era inevitabile che invogliasse gli studi Hollywoodiani a sfruttare le ardite tematiche implicitamente suggerite fino a spolparne l’osso, inventandogli intorno altri episodi, e creando di conseguenza una saga organizzata in ulteriori quattro capitoli fra sequel (L’altra faccia del pianeta delle scimmie, 1970) e prequel (nell’ordine, Fuga dal pianeta delle scimmie del 1971, vero e proprio anello di congiunzione fra presente e passato, 1999: conquista della terra del 1972 e Anno 2670 – Ultimo atto del 1973) sempre più stanchi e ripetitivamente ripiegati a spirale su se stessi (nessuno dei quali davvero all’altezza dell’originale), finalizzati soprattutto a raccontare in quale modo si era potuti giungere a “quel punto di non ritorno” messo in scena con appassionato vigore anche visionario (magnifica la fotografia di Leon Shamroy) dalla pellicola di Schaffner.
Quando in America si è a corto di idee, si cerca poi sempre di ripercorrere sentieri conosciuti sperando di rinverdire gli allori correndo pochi rischi, ed anche in questo caso ci si era provati a farlo (un po’ maldestramente per la verità) già nel 2001 (Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie diretto da Tim Burton) che – oltre ad essere una delle pellicole meno interessanti e riuscite del regista - si conferma proprio come un remake tutt’altro che memorabile e poco necessario, se non per un finale ugualmente inquietante e particolarmente indovinato, comunque insufficiente per riscattarlo interamente e dare un senso compiuto ad un’operazione di rivisitazione invero un po’ stantia.
La crisi sempre più profonda degli studios, e il progredire delle possibilità offerte dall’evoluzione della tecnica computerizzata degli effetti speciali, ha poi determinato una nuova attenzione “commerciale” sul soggetto che ha generato nel 2011 questo L’alba del pianeta delle scimmie diretto da Rupert Wyatt con il quale si è cercato di ritornare di nuovo sull’argomento in modo più personale e “realistico”, propriomettendo in scena il prologo di quella tragedia con una sceneggiatura molto liberamente ispirata al libro di Pierre Boulle (o meglio a quello che tale romanzo poteva suggerire fra le pieghe), ma ben strutturata e credibile nel suo insieme, scritta a quattro mani e con sufficiente intelligenza narrativa, da Rick Jaffa e Amanda Silver.
Pur rimanendo nel segmento minato dei blockbuster, il risultato possiamo definirlo un gradevolissimo ibrido fra divertimento e impegno che è riuscito a centrare pienamente entrambi gli obiettivi, fornendo per altro davvero nuova linfa a un’impresa che io personalmente avevo immaginato (evidentemente sbagliando) persa in partenza.
Intendiamoci: niente di eclatante, ma l’intelligenza che il regista ha sfruttato nel narrare per immagini questo “rifacimento inventivo” della genesi della storia, lo rende particolarmente interessante proprio perché, nonostante la contiguità tematica e di riferimento, Wyatt è riuscito a lasciarsi definitivamente alle spalle la sudditanza psicologica verso la serie originale, realizzando così un kolossal stimolante per più di un motivo (e soprattutto meno ovvio) che proprio partendo dalle vestigia un poco arrugginite delle ultime precedenti puntate, ripropone spettacolarmente e narrativamente, temi ormai in larga parte sfruttati e forse anche un poco usurati, ma rigenerandoli “a suo modo” e senza troppi timori reverenziali, non perdendo però mai di vista il “timone” che consente comunque di restare inequivocabilmente “dentro” la storia, anche se letta da un’altra prospettiva (anche temporale), un procedimento questo che finisce per rendere il film un prodotto certamente “commerciale”, ma di gran lunga più valido e interessante di quasi tutte le altre pellicole in circolazione e ormai tanto di moda a Hollywood (prequel, sequel, reboot o remake) che – proprio per andare sul sicuro - sono alla fine semplicemente e poco più di stanche ripetizioni “industriali” prive di idee e di cuore.
L’azione è infatti ambientata ai giorni nostri o giù di lì, e parla di uno scienziato, Will Roddan, che ha appena scoperto un farmaco che cura l’Alzheimer attraverso la rigenerazione delle cellule cerebrali. Ma quando uno degli scimpanzé da lui utilizzati come cavia riesce a fuggire, seminando il panico, il progetto va a monte e l’animale viene abbattuto. Il figlio dello scimpanzé, che ha ereditato un’innaturale attività cerebrale, viene adottato quasi come atto riparatorio da Will, ma l’intelligenza dell’animale aumenterà esponenzialmente con la crescita, fino ad eguagliare (ed anche superare) quella umana creando qualche grosso problema di contenimento e di “rapporti”.
Grande spazio è infatti lasciato proprio al mondo animale, il che potrebbe far pensare persino a un blando tentativo di provare a rinunciare – grazie alle nuove frontiere della tecnologia – al ruolo una volta preponderante degli attori in carne ed ossa a favore delle sorprendenti “creazioni” digitalizzate delle scimmie (creature ibride, quasi “realizzate un serie” ad opera di Andy Serkis e della Weta, che per la verità sono così perfettamente e realisticamente “(in)naturali” da far ampiamente rimpiangere - per lo meno a me – i più artigianali trucchi scimmieschi realizzati con protesi su attori in carne ed ossa, inventati da John Chambers per il film di Schaffner).
Il meccanismo del ribaltamento che punta alla collocazione dell’uomo in un contesto animalesco (e viceversa) vero elemento scioccante (ed anche disturbante) di tutti i vari tasselli della serie, rimane evidentemente invariato anche in questo caso, ma rimodellato e vivificato da una ingegnosa riscrittura interna che prova (e ci riesce) a capovolgere ogni “certezza” precedentemente acquisita dagli spettatori (intendo riferirmi soprattutto a coloro che già sanno come nel prosieguo andranno a finire le cose), una condizione di sospensione incredula che crea una costante tensione che si propaga per tutto l’arco di un racconto che altrimenti potrebbe essere considerato persino risaputo, scontato e poco coinvolgente.
Come ci fa giustamente osservare Mauro Antonini su “Segno Cinema” n. 172, nel vero e proprio gioco di ribaltamento interno del racconto fatto dagli sceneggiatori e dal regista, i ruoli dei due scimpanzé della saga originale (Corneliul e Zira) vengono questa volta volutamente assegnati a due “umani” (Will e Caroline) che sono però chiamati a svolgere le stesse funzioni narratologiche delle due scimmie (il riferimento è soprattutto al terzo titolo delle pellicole realizzate negli anni ’70) e nel fare esercitare loro persino gli stessi mestieri (scienziato e dottoressa). Nell’incipit per altro viene citato in maniera abbastanza esplicita proprio 1999: Conquista della terra, anche se poi l’ombra sinistra della bomba si trasforma qui in una mutazione dei geni (lo sfruttamento di cavie animali per fare esperimenti in laboratorio alla ricerca di nuovi orizzonti per la medicina, un mondo di prigionieri vessati e “torturati” che, trovato in Cesare il loro capo, si ribellano in massa con il furore distruttivo dell’intelligenza acquista, per sovvertire l’ordine delle cose e “capovolgere” le regole del gioco), e questo per non disperdere le tracce e magari lasciare spazio ad altre successive incursioni “cinematografiche” verso l’apocalisse.
L’alba del pianeta delle scimmie si conferma quindi anche come un’opera che – grazie alla densità tematica e alla forza affabulatrice del racconto - è in grado di compattare (e di fonderli insieme) i tanti registri, e i numerosi riferimenti evidenti, mai banali o superflui, usando come reagenti e catalizzatori, ingredienti tipici dei blockbuster come la suspense, l’azione e la spettacolarità ma con una capacità invero inconsueta, che è poi quella di utilizzarli nel pieno rispetto dei canoni imposti dal settore, ma dominandoli e addomesticandoli in maniera creativa, senza però renderli una antitesi sostitutiva del cuore pulsante di un progettoche forse fra le righe ha anche la pretesa di voler fare un discorso se non proprio di politica spicciola, per lo meno sociologico.
E proprio grazie a questo insolito modo di organizzarsi e di sostenersi (soprattutto con la forma), il regista riesce ad evitare gli errori dei suoi protagonisti umani, non perde il controllo della sua stessa creatura, non ne dimentica la specificità e la differenza ma, anzi, le coltiva (Federico Gironi – Filmcritica n. 508). Tematiche che spesso si muovono in sottotraccia comunque (è un po’ il destino delle opere realizzate per fare grandi incassi) e supportate da una espressività purtroppo ancora molto ridotta delle scimmie che a parte gli occhi (severi, colmi di odio e di furore), non presenta poi molte altre differenze di “riconoscibilità” individuale fra le varie figure, ma che riesce comunque a diventare una miscela esplosiva ed inquietante quando Cesare, il primate “emancipato”, evade dalla struttura che l’imprigionava, portandosi dietro tutti i suoi compagni, e il gruppo, il branco, diventa una inarrestabile marea che invade le strade di San Francisco, prima alla ricerca di altre scimmie da liberare, e poi di un luogo in cui esiliarsi momentaneamente per “crescere”, mutarsi definitivamente e passare finalmente al contrattacco. Una vera e propria tattica da guerriglia urbana insomma quella portata avanti con indignata consapevolezza e frustrazione dagli scimpanzé in cerca di riscatto e di “potere”, dove invece e per contro, i tentativi di repressione della rivolta incontrollata della specie da parte delle autorità cittadine, sembrano avvicinarsi con inquietanti affinità comportamentali, a quelli messi in atto con analoga virulenza per contrastare e “domare” gli scontri di manifestazioni “libertarie” di ogni tipo in giro per il mondo (ieri come oggi), quasi che Wyatt intendesse lasciare spazio fra le regole codificate dei blockbuster dedicati ai supereroi di turno, a qualcosa di più nobile e importante (quel substrato politico/sociale a cui accennavo sopra) che tende a trasformare Cesare nella metafora evidente di uno Spartaco o un Che Guevara delle scimmie (con tutta la retorica che si portano dietro tali figure), ma con una novità importante e non secondaria : il “potere” che si trasforma da fatto politico in una questione di evoluzione mentale (e conseguente di “conoscenza”), oltre che di genetica modificata.
Ottima la tecnica complessiva del regista, ed eccellenti gli avvolgenti piani sequenza che – soprattutto nelle parti più concitate - si alternano ad acrobatiche carrellate aeree che rendono dinamiche le scene; buona soprattutto la prova di James Franco che nonostante le premesse fatte sopra (la probabile marginalizzazione degli attori prevista dal progetto) riesce a imporsi con la bravura del consumato interprete portando in primo piano la figura del personaggio a lui affidato, per altro ben coadiuvato nell’impresa, da tutte le altre caratterizzazioni “umane” di contorno.
Come conclude proprio Gironi la sua recensione, a questo punto allora resta solo da sperare che l’apocalisse politica e sociale che la pellicola preannuncia inequivocabilmente, possa essere contraddetta in extremis da una nuova consapevolezza: quella che il personaggio interpretato dai James Franco riesce a intravedere, ma solo nelle ultime scene, e che non si tratti invece di uno zuccherino messo a bella posta solo per mandare a casa lo spettatore con meno nuvolosi presagi sul futuro.
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