Regia di Neil Burger vedi scheda film
The illusionist, forse alla fine il titolo che resta a tutt’oggi quello di maggior interesse fra quelli realizzati da Neil Burger, aveva ricevuto da parte mia una risicata sufficienza, ma solo in virtù della straordinaria prova di Edward Norton, perché di tutto il resto di quella patinata incursione un po’ furbetta sulla rischiosa scia di Nolan e del suo straordinario The Prestige, mi aveva davvero convinto ben poco (//www.filmtv.it/film/36831/the-illusionist/opinioni/262741/).
A questo punto devo forse credere che sia sempre e solo Nolan l’ossessione primaria del regista, colui del quale tenta di seguire un po’ le tracce pur non avendo analogo talento (e anche meno risorse economiche messe a disposizione dalla produzione) perchè per più di un verso fra i tanti apparentamenti che ci si possono ritrovare dentro, c’è purtroppo anche per Limitless quello piuttosto ambizioso di presentare echi evidenti che rimandano alla lontana a una specie di Inception dei poveri rivisitato in modo da non dar troppo nell’occhio e miscelato a sua volta con un consistente numero di “suggestioni” eterogenee riprese da molte altre opere importanti, alcune delle quale hanno fatto “storia” (i riferimenti psichedelici a una specie di LSD aggiornato ai tempi che rimandano al Serpente di fuoco di Corman, qualche spruzzo di Strange Days e di Wall Street di Stone per il problema delle quotazioni in borsa gestite da una finanza sempre più drogata e quello dei riferimenti alle paranoie sociali ed economiche tipiche degli anni ’70, un pizzico di Matrix che ci sta sempre bene, e qualche sotterraneo riferimento di stampo kubritchiano) che per Giulio Sangiorgio su Duellanti potrebbero spingersi persino in direzione di Coppola (la pastiglia fulcro della vicenda che sembra possa contribuire a realizzare l’utopico desiderio di una conoscenza totale, tema curiosamente condiviso con “Un’altra giovinezza”), o addirittura di Slevin, patto criminale, il tutto condito però con una buona dose di riferimenti a Ballard e Gibson che sono inevitabili e in ogni caso possono anche risultare divertenti, se sono maneggiati con prudenza.
Il guazzabuglio “citazionistico” che include anche “analogie”con altri titoli per singoli momenti e situazioni o per modalità di ripresa, è certamente ancor più ampio (e persino godibile in alcuni tratti) ma forse così eccessivo da risultare un po’ stucchevole alla fine, perché non sempre suffragato da una analoga pregnanza di “soluzioni” originali, o di sufficiente inventiva narrativa.
Se dovessi dunque valutare il suo lavoro tenendo conto di questa ambiziosa voglia “emulativa” di prototipi per lui evidentemente (almeno al momento attuale) irraggiungibili e tutt’altro che a portata di mano, dovrei essere ugualmente inclemente e ripetere quanto già scritto a proposito proprio di The illusionist, quando dicevo che il confronto con Nolan da più parti tirato in ballo per alcune evidenti analogie, non era a mio avviso assolutamente proponibile, e anche dannoso in fondo, perché se fosse stato preso come assioma certo, si sarebbe trasformato inesorabilmente in un boomerang capace di far sembrare ancor più disastrosamente in perdita il risultato finale delle fatiche di Burger.
Meglio non tenerne conto allora o far finta di ignorarlo, e provare ad osservare invece il film come se si trattasse di una semplice opera di intrattenimento “commerciale” ascrivibile a un evidente ibrido che parte dal genere fantascientifico, ma con spiccate venature sociologiche a far da condimento e insaporire così almeno un poco la pietanza. Si potrebbe essere allora un tantino più magnanimi e accomodanti, perché tutto sommato il coinvolgimento (e anche un moderato divertimento) sono certamente assicurati, anche se c’è un finale a mio avviso non all’altezza delle premesse e delle aspettative (ma è solo un personale e confutabilissimo punto di vista teso ad evidenziare il “neo”, non certo un’inappellabile condanna “in negativo”), e dove forse l’aspetto più interessante è individuabile nel modo un po’ spregiudicato con cui Burger tratta la premessa, con un abbinamento abbastanza insolito di “genio” e “sregolatezza”.
Facciamo allora così e parliamone proprio in quest’ottica (mi sembra molto più onesto nei confronti di un regista poco “autore” e molto mestierante, intrigato più dalla tecnica che dalla poesia e “allettato” soprattutto dal possibile risultato di cassetta).
Liberamente adattato da The Dark Fields di Alan Glynn (è la storia di Eddie Morra – Spinola nel romanzo - scrittore fallito e in fase rovinosamente discendente, che entra in possesso di una pillola che gli permette di utilizzare totalmente le proprie risorse cerebrali, compreso quell’80% di cervello che scientificamente dovrebbe restare inaccessibile all’essere umano, e si ritroverà per questo immerso in un flusso frenetico di iperattività mentale che lo condurrà alle soglie di inquietanti stati di allucinazione e persino un po’ oltre, ma che utilizzerà alla fine essenzialmente per scopi economici e di lucro) Limitless ha uno spunto di partenza un po’ cyberpunk che si trasforma progressivamente in thriller, anche per le conseguenze visionarie derivanti dall’utilizzo delle straordinarie qualità di quella pillola, che lo faranno poi slittare in varie direzioni ed aspirare persino ad esprimere anche una critica satirica e “mediata” (un po’ epidermica, per la verità) della nostra contemporaneità (economica-sociale – politica) e della rete.
E’ l’effetto quasi “magico”della pasticca infatti che consente a Morra di avere il momentaneo, diretto accesso alla globale conoscenza del “sapere” umano ma senza poterlo acquisire come definitivo e permanente compendio “formativo”, poiché dovuto semplicemente a un mezzo transitorio e artificiale che ha la capacità di “connetterlo” con un bagaglio nozionistico illimitato, basato semplicemente – come succede appunto con le “memorie dei computer” – sulla possibilità di associare e assemblare link e notizie con velocità inaudita traendone una sintesi immediata.
Il tutto, genera così quello che potremmo definire un coinvolgente thriller degli equivoci, che con un certo svagato cinismo e una dose massiccia di amoralità diffusa, si trasforma alla fine in una insana voracità capitalistica. Il mondo del nuovo Eddie diventa così un vero e proprio luna park dai sensi ipereccitati , e la sua scalata al potere alla conquista della donna, di Wall Street o di Washington, un percorso convenzionalmente canonico scontato e prevedibile, perchè Mora è tutt’altro che un personaggio dilaniato da dubbi etici e spirituali o da dilemmi morali: sembra semmai più simile a una specie di surfer che ha imparato a muoversi con spericolata destrezza e altrettanto cinismo, sull’onda dei nostri istinti più primordiali e materialistici.
Burger, che focalizza principalmente il racconto sul (e dentro il) cervello del protagonista, utilizza vorticosi movimenti di macchina (questo gli va riconosciuto) che oscillano virtuosisticamente con costanti reiterazioni fra il “dentro (la mente appunto) e il “fuori” (il mondo reale) e un’energia visiva inusuale abbastanza sorprendente, che si definisce in particolari scelte estetiche che si rifanno a un armamentario già ampiamente sperimentato e utilizzato soprattutto nei videoclip (Gondry in testa).
Il gioco del potere insomma, l’asservimento al dio denaro, il marketing anche politico con tutto ciò che ne consegue, dove però le cose sono rilette in una chiave dichiaratamente futuristica, ma comunque attuale come visione generale, e poi assemblate insieme per coniugarle alle fine in una specie di action-movie più superficiale che profondo, visto che anche le psicologie dei personaggi risultano abbastanza sbozzate con l’accetta e c’è una totale, assoluta assenza di redenzione morale che un po’ stona con l’insieme dell’assunto per evidente eccesso di conformismo, così che la presunta corrosività della pellicola che in alcuni tratti sembra avere il sopravvento, diventa poi nel risultato finale solo di facciata, e si scontra con una specie di “autoreferenzialità della retorica” che finisce per far somigliare il tutto a una specie di esercitazione asettica, o peggio, a un compiaciuto e inerme vezzo certamente “cool”, ma troppo poco critico e ancor meno incisivo (tutto sommato quindi, anche valutandolo strettamente come “prodotto” legato al prioritario “genere” di riferimento, purtroppo un risultato da “normale amministrazione” e poco più).
Ottimo il contributo degli interpreti (è soprattutto a loro che si deve la parziale riuscita dell’operazione) con in primo piano Bradley Cooper, il protagonista, che risulta particolarmente convincente per come riesce a trasferirsi disinvoltamente e con la necessaria grinta che lo fa percepire seducente e abominevole allo stesso tempo, dentro l’articolato succedersi di ruoli anche apparentemente antitetici che il suo personaggio – una specie di anti-Faust abbastanza divertente - è chiamato a rivestire nel corso del racconto. Accanto a lui, da ricordare almeno il contributo un po’ istrionico di Robert De Niro che si adegua con professionale competenza al passo imposto dal regista.
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