Regia di Emanuele Crialese vedi scheda film
Nulla si crea e nulla si distrugge, semplicemente tutto si trasforma. Fu Talete di Mileto, tra i primi, ad affermare che l’origine di tutte le cose fosse nell’acqua. Perché, così com’è vero che nell’acqua si srotola il papiro nel quale è stata scritta la storia della conquista del mondo da parte degli esseri umani, è altrettanto probabile che dall’acqua sino alla terra siano risalite le prime specie animali viventi per invaderla e colonizzarla. Perfino lo spirito di Dio in principio, prima ancora di creare il cielo e la terra, aleggiava sulle acque secondo la Genesi. Sempre Dio – che ama l’ordine e l’armonia tanto da compiacersene nella creazione – con il suo tocco d’artista separò le acque dal cielo e in seguito fece apparire l’asciutto: quella terraferma nella quale l'uomo torna, perché dalla polvere di quella terra insufflata con l’alito della vita fu creato il custode del giardino di Eden.
Quale attrazione magica lega i padroni della Terra all’elemento più vasto che in essa è contenuto? E ciononostante, come mai l’uomo ha raggiunto pianeti lontani e non è ancora riuscito a sondare i fondali del mare? Perché il vecchio e consunto Santiago combatte la battaglia della sua vita alla caccia del marlin sconfiggendolo, ma non ricavandone nulla, mentre l’intraprendente capitano Achab sfida la morte cercandone il volto e finendo la sua vita trascinato dai flutti?
«Il mare è un campo funebre, un luogo di tomba che nasconde i corpi», dice Emanuele Crialese. Il corpo di un immigrato nascosto nel mare è un corpo che sfugge alla memoria, come invece il corpo di un pescatore disperso nel mare è un corpo che vive nella mente di chi lo ha conosciuto o ne ha apprezzato le gesta. E se in Nuovomondo il mare era l’elemento che separava le due metà gemelle dell’unico seme, in Terraferma quel mare a latitudini diverse è l’elemento che unisce le vite di due donne sconosciute e lontane.
Giulietta vive in un’isola sperduta in un punto staccato della carta geografica, ma quel piccolo punto rappresenta il porto d’approdo di Sara che viene da un paese lontano. Giulietta è una vedova stretta nei ritmi del tempo isolano che pensa di costruire un futuro migliore per lei e il figlio Filippo, cercando di trasformare la sua vita da pescatore in quella di un operatore turistico; Sara affronta un nemico invisibile che gli impedisce di riunire le vite dei sui familiari in un unico posto decente per vivere. Un nemico invisibile che si chiama con molti nomi: fame, povertà, schiavismo, scafista, carretta, sete. E che di cognome fa rimpatrio, ma talvolta anche morte.
Crialese punta il dito non tanto sulle violenze subite nel passaggio clandestino, quanto su quelle regalate dall’accoglienza civile. Un’accoglienza che il mondo organizzato riesce a pianificare perfino nelle isole più lontane dello stivale, mandando le sue truppe normalizzatrici che tutto ricompongono e ripuliscono al motto di quel poco che c’è deve bastare per noi. Una normalizzazione che deve avvenire dietro le quinte, lontano dalle coste, perché nessuno sappia, si sconvolga o si disturbi. Perché qui è in gioco la coscienza degli italiani e, in estate, la riuscita di una legittima vacanza.
«Ora, mentre la natura ha provveduto perché gli esseri umani potessero vivere dappertutto sulla terra, ha anche nello stesso tempo dispoticamente voluto che essi dovessero vivere dappertutto, quantunque contro la loro inclinazione», questa era la semplice idea di Kant. Eppure quanto appaiono lontane le idee dalla loro messa in pratica, per l’uomo moderno!
Dunque, se le parole non servono, come possiamo portare avanti le idee? Facendo parlare le immagini: semplici e ordinate, limpide e scandite. Come quella carrellata che si diparte dalla terra bruciata dell’isola per culminare nel mare blu cobalto di una bellissima insenatura. Come quel volto rassicurante e monumentale di Ernesto, un capofamiglia di vecchio stampo e maniere, che non si vuole piegare alle logiche di questa terraferma gaudente e cialtrona, che con le sue leggi ordina ai pescatori di non porre in salvo i clandestini avvistati al largo. «La legge del mare! Solo a questa dobbiamo ubbidire». «E quando mi sequestrano la barca vengo a mangiare a casa tua?». «Perché parli di mangiare? Manca il mangiare a casa tua? Un pescatore può morire mai di fame?».
Ernesto non ha intenzione di sottostare a queste leggi insensate, né a uno stile di vita cinico e baro. Ai familiari che gli consigliano di vendere la barca e incassare il contributo per la rottamazione risponde: «Vendere la barca? Noi solo questo sappiamo fare: pescare. Questo ci hanno insegnato».
È nei capisaldi delle regole morali – quelle che ci hanno trasmesso i vecchi – che si costruisce la vera vita comunitaria, nelle piccole e certe leggi che regolano la natura dell’uomo e degli elementi in cui vive, perché è lì che egli è stato creato. A queste regole non si sfugge. Altrimenti, mentre le cominciamo a ignorare, «mentre già si sta facendo sera, e calmo e lento si richiude il solco dietro le nostre spalle, sulle carte sbiadisce il segno, e affonda la memoria a inghiottire i vivi e i morti».
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta