Regia di Peter Jackson vedi scheda film
https://www.youtube.com/watch?v=2fngvQS_PmQ
Lo Hobbit - La desolazione di Smaug è un film dai forti contrasti.
In primis, dacché tratteggia una geografia della Terra di Mezzo ricca di tutte le sue iridescenti sfumature:
verdi come le foreste ancora vergini degli elfi silvani (prima che la corruzione venefica, che dilaga più a sud, esse pure lambisca minacciosa);
azzurre come le acque cristalline e spumeggianti del fiume Selva, che risucchia e che sballotta, ma che protegge dagli assalti del nemico;
rosate come le albe/i tramonti (qui P.J. fa un po’ di confusione con i punti cardinali) che estendono la loro benedizione sullo spicchio più remoto di Arda;
rosse come il soffio mortifero di un autentico (benchè illegittimo) re sotto la montagna;
bianche come la luce che lacera le latebre e che, nondimeno, da queste finisce per essere “ghermita”;
nere come l’oscurità che cova nell’ombra, in prudente, ma trepidante, attesa.
In secundis perché, allorquando lo sguardo cade su Legolas, si scorge un elfo decisamente più regale e più… freddo (“come un mattino di pallida primavera ancora legato al gelo dell'inverno” avrebbe sussurrato Grima Vermilinguo) rispetto a quello de ISDA (e questo non me lo riesco a spiegare).
Last but not least, perché alterna - con non spiccata maestria (prima noticina di demerito al montaggio “alternato”: alquanto piatto) - momenti caratterizzati da un tasso di impressionante spettacolarizzazione con altri (anche di stanca) difficilmente comprensibili.
Balza, da subito, all’occhio il buon vecchio Peter in un cammeo a Brea (come ne La compagnia dell’anello; doppio wow!), eppure il dialogo che segue il primissimo incontro fra Gandalf e Thorin è di spessore assai modesto.
Tralasciando, poi (con quale fatica non è dato spiegarlo), ogni dispiacere per la sfasatura fra testi originari (Lo Hobbit e Appendi de ISDA) e trama del film (come sempre - ahimè - inevitabile), basti pensare alla sfumatissima liaison fra l’elfa Tauriel (la quale comunque, devo ammetterlo, mi è parsa simpatica) e il nano “sexy” della combriccola, Kili: un’idea che nasceva, di per sé sola, sotto cattivi auspici è stata concretizzata (per certi aspetti) anche peggio (taluni dialoghi – anche, a tratti, equivoci - sono davvero scadenti), anche se - almeno quello - ci sono stati risparmiati sviluppi ben più imbarazzanti…
La fuga con le botti è sì decisamente rocambolesca ed esaltante, ma (cosa non hanno fatto fare al povero Bombur!!) fa troppo effetto “acquapark” (non parliamo, poi, della “surfata” di Thorin sulla colata di oro fuso).
Ma si rifletta, altresì, sulla forzata concitazione generale dell’impresa, condotta sul solco di un’esigenza di frenesia (onde far dimenticare le stasi del 1° capitolo) che azzera le logiche spazio-temporali e traghetta i nostri eroi (ma non solo loro) da una parte all’altra delle Terre selvagge in men che non si dica (e quasi senza un’ora di sonno alle spalle).
Se poi, infine, penso all’espressione stentorea di R.Armitage che, sfigurato dalla protesi facciale di Thorin, non riesce a far trasparire le prime vene di follia del suo personaggio (ciò che, giocoforza, faranno la differenza nell’ultimo capitolo della saga), mi assale lo sconforto…
Ma poi volgo io sguardo su ciò che c’è di bello in questo film, e mi rincuoro.
Beorn appare poco, ma si dimostra un mutapelle “di peso”.
L’infida progenie di Shelob inquieta al punto giusto.
Le scenografie di Pontelagolungo sono opere di artigianato. made in Weta, davvero incantevoli.
Lo scontro fra Gandalf e il Negromante umilia le bravate di “Rowlinghiana” memoria.
E poi il drago: l’ultimo drago rimasto sulla Terra di Mezzo - Smaug “il terribile”; Smaug “il dorato” (letteralmente, ma per un istante troppo fugace) - è puro spettacolo visivo.
Perché - da un’angolazione più ampia - non è dato disconoscere lo spettacolo autentico che prende forma, a ben vedere, dalla prima all’ultima scena. Uno spettacolo per gli occhi e per il cuore (quello, almeno, di chi, come me, è cresciuto a pane e Tolkien, sognando questo giorno: quello in cui P.J. avrebbe replicato la magia de ISDA a misura di Lo Hobbit) che tracima incontenibile in mille occasioni (impossibile elencarle tutte) e che ripaga della lunga attesa (un lungo anno dall’inizio della new saga).
Senza dimenticare - come in ogni opera multi-livello che si rispetti - i testi (il potere corrosivo del Potere - l’unico anello - che inizia ad esercitare la propria infausta influenza) e i sottotesti (la simbolica decadenza della pittoresca Pontelagolungo, elevata a ricettacolo di bassezze e ipocrisie umane… come se non bastassero quelle, per ora solo poco più che latenti, degli alteri re delle rispettive razze: Thorin e Thranduil).
Eppure - come a rimestare l’enunciato di partenza - se è vero che le melodie di H. Shore sanno toccare, in alcuni passaggi, le corde giuste, danno (nondimeno) il loro meglio (ah la nostalgia, che brutta bestia!) quando (peraltro raramente) riecheggiano quelle de ISDA (anche perchè, stavolta, non compare neanche Misty mountains cold ad infondere prezioso coraggio).
Eppure ancora una canzonetta (I see fire; certo gradevole, ma pur sempre una canzonetta) si deve ascoltare mentre scorrono i titoli di coda (sì che un velo di tristezza pervade il mio stato d’animo al solo ricordo delle voci di Enya, Emiliana Torrini e Annie Lennox).
Insomma, c’è poco da fare: il meccanismo sembrerebbe incepparsi di nuovo (come già aveva seriamente rischiato nel 1° episodio), ma stavolta il retrogusto amarognolo inumidisce appena appena le labbra; perchè sono questi i contrasti che danno sapidità alla visione di un racconto avventuroso e che si assaporano con piacere: quelli che, almeno, fanno discutere (nel bene o nel male) e rimangono impressi, a lungo.
Tre stelle e ½.
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