Regia di Peter Jackson vedi scheda film
Che delusione, La desolazione di Smaug!
Il finale.
Il non finale.
Più che aperto, interrotto, reciso, abortito.
Bruscamente, di netto, e sul più bello; proprio quando il film, raggiunta la pur ragguardevole durata di oltre due ore e mezza cominciava a interessare ed appassionare sul serio.
Niente di nuovo, nulla che non sia già stato fatto e sperimentato (e ripetuto) con successo. Eppure la faccenda, questa volta più sporca di altre (e senz’altro di tutta la precedente saga e del primo episodio di questa seconda), stufa e irrita maledettamente.
La delusione in sala, al nero velarsi dello schermo, ed appena acquisita la consapevolezza del misfatto, regna sovrana e disegna facce sorprese dalle quali fuoriescono sbuffi eloquenti: che due balle, sintetizzando e volgarizzando.
Però, appunto, si tratta di artifizi noti e (più o meno) accettati: insensato stupirsi, vano protestare, nocivo anatomizzare le viscere dell’enorme fiera sputafuoco ammaestrata da Mastro Jackson.
Bisogna armarsi di santa pazienza ed attendere un altro anno, ché giungerà il terzo e conclusivo capitolo a portare la luce che dissolverà ombre e misteri. Vabbè.
Inezie (mica tanto) a parte, come si accennava poc’anzi il dato rilevante è che la seconda delle avventure di Bilbo Baggins, ci mette tanto (troppo) tempo a coinvolgere, divertire, emozionare. In pratica, ciò accade solo quando entra in scena il pazzesco drago Smaug: creatura eccezionale, nerissima, la cui bocca erutta tanto maligno ciarlare quante vampe infernali. Uno spettacolo, d’effetti speciali realmente “speciali” e nei duetti con Martin Freeman, giocati abilmente sull’esasperazione delle loro differenze: mastodontico, egocentrico, cattivissimo e (pre)potente il drago; minuscolo, invisibile (anche letteralmente), insicuro, balbettante e mansueto ma accorto lo hobbit. Da notare come nella versione originale, a prestare la voce a Smaug sia Benedict Cumberbatch (a ricomporre, seppure virtualmente, la magnifica coppia di Sherlock): scelta nient’affatto casuale …
Ad ogni modo, è poco. Prima, poco accade; e quel che accade scorre via - talora in maniera fluida talora pesantemente - lasciando flebili tracce di sé. Del resto i difetti sono gli stessi de Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato: la storia non riesce ad avvincere, ad “entrare” compiutamente negli occhi e nei cuori di chi guarda, la sensazione del già visto è netta (alcuni frammenti e scelte estetiche sono pura riproposizione, ma con meno vigoria e forza), e il sapore è quello classico della minestrina riscaldata.
Una rappresentazione sì condotta da mani indiscutibilmente capaci ed esperte verso i più alti livelli di spettacolarità ma in sostanza fredda, come realizzata per inerzia, per “dovere”; un’opera che - amara constatazione - non può certo ritenersi memorabile.
Non si avvertono mai, o quasi mai, il magniloquente senso di autentica epicità, la magia e l’incanto dell’avventura straordinaria, il respiro e i toni da grandiosa composizione che (r)accoglie istanze anche al di fuori dell’appartenenza al genere. Tutti quei sentimenti, cioè, che si provano quando si assiste e “partecipa” a qualcosa di unico, di irripetibile, come avveniva con la Trilogia del Signore degli Anelli, dal cui (improponibile eppure inevitabile) confronto Lo Hobbit: La desolazione di Smaug non può che uscire sonoramente sconfitto: la sua natura è quella di un fantasy senz’anima (oltretutto superato a destra e a sinistra, in ogni direzione e libertà creativa dalla meravigliosa serie Il trono di spade).
Peter Jackson, che ritaglia per sé la primissima inquadratura (è il tizio che esce dalla locanda mentre addenta qualcosa), così come con il primo capitolo di questa seconda trilogia, delude ancora, trascinandosi dietro nella stanchezza anche qualche attore prima impeccabile, come ad esempio un Ian McKellen che talvolta si produce in espressioni inadatte “smorfieggiando” a caso.
Gli altri personaggi si confermano nella loro sostanziale anonimità, ma se per il Bilbo interpretato - bene - da Martin Freeman si tratta di una scelta stilistica organica al suo personaggio, per il resto della truppa è un risultato evidentemente fallimentare; impressione confermata peraltro da un ritorno atteso ed illustre come quello del prode Legolas di un Orlando Bloom che pare di plastica e non apporta alcunché (senza il compagno d’armi e giochi Gimli è un noioso soprammobile con arco e frecce).
Buona l’introduzione di una figura inventata (poiché non presente nelle pagine di Tolkien) come Tauriel - a cui Evangeline Lilly conferisce bellezza e freschezza oltre che la necessaria femminilità in un monotono mondo popolato di uomini e orchi - anche se non convince la sua liasion con il nano “più altro di altri” (e le conseguenti scelte in piena disobbedienza agli ordini regali); mentre sicuramente si poteva approfondire meglio l’interessante Thranduil, padre di Legolas nonché Re degli elfi.
Capito, sì: sarà per la prossima, definitiva puntata, forse, della quale dovremo aspettarci il “meglio” che ci è stato gentilmente riservato. Speriamo.
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