Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
Un film sotto il segno della morte, fin dalla prima sequenza, una carrellata sulle lapidi dei caduti della Grande Guerra («i morti sono sempre troppi»), dove Jacques Cormery (un intensissimo Gamblin) cerca - in un abbraccio (im)possibile - il corpo del padre, praticamente mai conosciuto. Comincia così il nono lungometraggio per il cinema di Gianni Amelio, girato nel Nordafrica con soldi francoalgerini (la “partecipazione italiana” la dice lunga sullo stato del nostro cinema, oggi), tratto dal romanzo omonimo e incompiuto di Albert Camus. Quel romanzo ritrovato tra i rottami dell’auto dello scrittore dopo lo schianto - avvenuto il 4 gennaio 1960 - che gli costò la vita nei pressi di un paesino della Borgogna, e che la figlia diede alle stampe solo nel 1994, dopo un accurato lavoro filologico. Camus, dunque, per l’autore di Lamerica e Così ridevano, lo scrittore erroneamente accusato di «pessimismo» («Al centro della mia opera vi è un sole invincibile» chiuse il suo saggio più celebre e studiato, Il mito di Sisifo), già trasportato su grande schermo altre tre volte grazie a Lo straniero (tramite Luchino Visconti e il turco Zeki Demirkubuz) e La peste (Puenzo), riletto e rivisto con la forza di immagini nette, dove Amelio - nell’Algeria del 1957 e del 1924 - trova luce e colori che arrivano in sala meravigliosamente da una memoria che è insieme personale (il Nordafrica come la sua Calabria, la povertà dignitosa riscattata dal sapere), storica (il mondo che tenta di rialzare la testa dopo l’obbrobrio della Grande Guerra, i moti di liberazione nell’Algeria ancora occupata dai francesi) e cinematografica (tra le non poche citazioni, quella - bellissima - del finale di I 400 colpi). Girato orizzontalmente come a ritessere fili snodati dalla Storia, Il primo uomo riesce nel miracolo di commuovere dentro un impianto di algida compostezza, catapultando lo spettatore in due epoche chiave del Novecento (l’infanzia di Cormery, impersonata dal piccolo e per molti versi straordinario Nino Jouglet; e la maturità dello scrittore ormai affermato che torna nella natia Algeria per rivedere la madre e ritrovare il suo passato), in uno splendido gioco temporale di ellissi e dissolvenze che sono, poi, la natura stessa del cinema.
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