Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
“Il primo uomo” (Le premier homme. 2011) è il nono lungometraggio del regista calabrese che torna a girare dopo cinque anni (“La stella che non c’è”). Un’operazione complessa e una produzione internazionale tra Italia, Francia ed Algeria. Il budget importante ha consentito di realizzare un’opera di grande livello e tutto il cast ha rimarcato il tutto con un esito di rimarchevole effetto.
Un film toccante, intenso, implosivo, segnato e silenzioso. Dove tutta l’interiorità dei vivi è blasfema e il racconto è segno di un cimitero da cercare con dovuta distanza e scaduta armonia dei colori. Una ripresa piena, statuaria, sentita e con un calligrafismo di foto agrodolci che rimpiange il non detto e il non luogo, come la casa oramai distrutta della nascita di qualcuno e di ciascuno di noi.
Cercare il passato e guardare sempre il luogo come tempo assetato di ricordi e di modi vigliacchi petulanti ed ardimentosi. Le immagini ci consegnano un coercitivo paese di speranzosi fanciulli dalla faccia desta e dalle voci spudorate: chiudere dentro di noi il nulla che viene e il pieno che forse era. Un film pieno di sincopata tristezza e di spalmata avidità dei tempi inutili. Mentre ciò che mi si presenta mi soccombe nel frattempo il pensiero interiore si scuce con voglia segreta. Gli incontri non sono mai casuali e le giostre della vita ci consegnano situazioni di ritorno con rituali adescati pieni di commozione repressa. Una statura rilevante di immagini e di composizioni dei personaggi fanno pieno lo sguardo di uno spettatore avvinto, circondato e accarezzato da modi leggeri e pagine ricche di mesto vivere e di una quiete di la da venire come assenza di un respiro.
Così espressa e manifesta fa capolino nel lavoro del cineasta calabrese la fine di una vita repressa e la gioia di un morente rinato. Tutto è labile e occultato da croci diradate e da pensieri di memoria succube della storia recente e del passato ingrato. Il film di Amelio è pervaso da un sogno interiore fortissimo pieno di fantasmi e di morti viventi: tutto appare nei gesti contenuti, nei modi sobri, negli sguardi attenuati, nelle forme appianate. Il contorno delle immagini rimane angusto con confini non oltre un animo affranto e dimesso: le riprese sono allungate dentro il passato dei personaggi non certo dietro al futuro tagliente e grumoso. I colori pastosi e affioranti della fotografia denotano una ricchezza esteriore solo da invaghimento dei luoghi rimasti e da quello che ancora emanano. Il sogno rimane dentro inviluppato e difficile da manifestare e da temperare con luci diurne appariscenti e vistose. Il parlare è tenue, indolcito e refrattario ad ogni evenienza futura. Lo scrittore Jean Cormery (Jacques Gamblin) che torna in Algeria (suo paese d’origine) nel 1957 (anno in cui appare la cronistoria di Albert Camus nei racconti del suo alter-ego) rivede se stesso da bambino ma appare a se stesso nello specchio di sua madre (donna lucida e forte) Catherine Cormery (nel volto anziano di Catherine Sola) che si mescola con parsimonia nei ricordi del figlio. Il loro silenzi sono come mille parole e le loro frasi semplici sono come la storia di una famiglia e il vivo mondo di una via e il suo mondo (come di un intero paese).
“Mamma chi sono i poveri?”, “I poveri siamo noi…”, “Se siamo noi….va tutto bene” risponde Jean bambino. Un bene augurante al suo Paese non certamente alla povertà così come non si desidera. La ‘povera gente’ si sente dignitosamente coraggiosa e con un grande fermento d’animo. Nessuno è escluso per quel che fa e, soprattutto, per quel che pensa e come agisce. Un ritorno alle origini per Jean, un bambino vivace, deciso e convinto. Dalla dura terra del suo Paese apprende lezioni ineguagliabili e da pochi riesce a succhiare il meglio possibile. Il regista, in modo conscio, ritrae il suo piccolo mondo natio oltreconfine con un resoconto narrativo semplice ed efficace. Il bambino e la sua foga inespressa s’intagliano in ogni primo piano possibile.
Il basso profilo della recitazione suona come un vistoso gioco di interni umani accarezzati e di rimosse speranze passate. Sì, perché il mondo che vive lo scrittore al ritorno è quello di un bambino riconosciuto (dentro), nel volto di Nino Jouglet (ridente ed efficace), che si allontana dalla sua casa per misurarsi con vie e dintorni vicini (sapendo bene che sua nonna usa maniere forti nei rimproveri). Come quando giocherella con i cani in gabbia e con altri ragazzini li libera tutti; ma il ‘signore dei cani’ (come un nomignolo di favole illustrate) non vuole sapere del suo candore (forse questa volta era nel giusto) e lo tiene rinchiuso nella sua gabbia per molte ore (lì di fronte all’orizzonte del mare con un’immagine che è degna di romanzi d’avventura, di fasulli eroi e di reconditi vezzi di fantasie aggrumate). Una scena di speranze passate e di livori presenti: rinchiudere il se e il ma in un connubio di intenti ideali. E sì che i bambini prima riescono a darsela a gambe scendendo dagli alberi in un nascondimento perenne e solitario mentre la loro corsa appare vivace e piena di cieli. La prigione del bambino Jean è di fianco al carrozzone di legno del Gatto e la Volpe (Franchi e Ingrassia) all’inizio del ‘Pinocchio’ di Luigi Comencini come il suo urlare è quello di Pinocchio che vuole assolutamente correre (e capire il mondo intorno) e avere le gambe di carne e ossa. Ma il suo sguardo fisso e attraente ricorda quello di Bruno (Enzo Staiola), un commiserato povero di famiglia di “Ladro di biciclette” o uno ‘sciuscià’ (Pasquale o Giuseppe del film di Vittorio De Sica) di strada che ha voglia di voler pulire le scarpe del suo folletto animo.
Siamo negli anni venti quando il giovanissimo Jean andava a scuola e colloquiava con pochi e si menava con Hamoud Djamel Said) per ‘urgenze’ razziali e religiose. “Femminuccia”, mai dirlo ad un bambino che al minimo appiglio può partire senza pensarci e darl(se)le di santa ragione. Un bambino e il suo maestro, ciò che un ruolo non riesce dimenticare e quando quel ruolo ricorda una frase di una vita: “ogni bambino contiene già i germi dell’uomo che diventerà“ (quell’incontro dopo tanti anni è suggestivo non nel luogo e nei modi ma nel profondo delle vite di due persone oramai avanti negli anni).
Ma i fatti narrati e il riassunto di uno scrittore (seppur famoso) non possono essere la cartina da tornasole di un paese e della sua civiltà. “Chi scrive non è mai all’altezza di chi muore”: qui sta il nocciolo importante e fondamentale di un gruppo o di una nazione che aspetta fatti più che giochi romanzati. E così che l’approccio di Jean adulto all’Università (di fronte agli studenti) è solo tradimento per chi li ha lasciati ed è diventato famoso scrivendo in terra ‘straniera’ (la Francia di cui ogni comunicazione coloniale si vorrebbe tranciare). Sì appare e lo è un tradimento irreparabile, una sconfitta di un ideale e una denigrazione del suo popolo (è proprio vero che più volte, quando si torna nella ‘propria casa’ di origine, i nemici attorno crescono e l’invidia cova sotto la cenere…).
E sì che Amelio riesce a mettere una passione dirompente lungo tutta la pellicola nonostante pare tutto un susseguirsi di schemi ameni ed inermi: i visi, le gesta e i dialoghi rivelano un pastoso animo ‘filmico’ in subbuglio. Tutto in merito destabilizzante e meno in luci sgargianti: l’uomo isola se stesso e sconquassa l’intorno comunque. Devastante lo scandagliare i visi e i loro interiori modi con traini e spinte narrative affrante e salivari. Un film pieno di istantanee perse e ritrovate da ciascuno. E una sedia, un tavolo e un bicchiere vuoto che cade tra le mani di Jean (adulto) subito viene rimesso a posto: un silenzio e un piccolo rumore assordante con le voci in sottofondo di una bevuta in lontananza di un bambino vicino al mare (“Il ladro di bambini” e la scena in spiaggia con bicchieri che si annodano tra le mani); nello stesso tempo il bambino assapora il gusto marinaresco tra la mamma e lo zio in un colore ammantato di vapori (in)passato in un lungo riva di stile che fu e di nostalgia stantia. Il gusto mescolante di posti, luoghi, tempi e film diversi desta nello spettatore un’allegoria e una fantasia acclamato ria fuori da ogni gesto autoreferenziale e acclamante. Una regia sobria, delicata e di grande efficacia rendono i posti fermi e compatti come se i vari personaggi fuoriuscissero a piacimento per scorrere nei percorsi temporali e spaziali. Su accorgimenti carezzevoli e piani immagini a spirale nelle profondità interne non certamente negli allunghi di un teleobiettivo imbastito di presente-passato come fuorilegge di colori festanti nell’orizzonte chiuso da un aborto ignoto. Quello che non si vede è il senso profondo della fine e del tempo inesistente. Un giorno che sta volgendo alla fine: una sera estiva per Jean adulto, una sera autunnale per sua madre e i ricordi sempre più sottratti.
E la mamma di Jean, canuta e con voce dimessa e saggia, argutamente addolcisce la visita di un figlio atteso e di un bambino passato (e sì passato tra le cose buone educate e divertite nel profondo) arrivando al chiuso di un’anta della finestra che apre d’innanzi al centro di via della città mentre il passeggio e il chiacchiericcio continua indisturbato. La mano di lei che appoggia al vetro un legno che divide la luce esterna (viva e piena) ad un sommesso buio interno (remoto e silenzioso) per distogliere il ricordo da influenze forvianti e accumulare il tesoro nel ripostiglio di sempre (una scatola dei biscotti) che giammai verrà perduto.
Lo sguardo di una donna che si gira dalla finestra chiusa e si ripone nella stanza oramai priva dei raggi pomeridiani della luce solare. Un buio mesto e di riposo. Come la visuale iniziale del cimitero di un uomo passato. Il vero ricordo è nei sogni di altri.
Il cast degli attori testimonia la piena riuscita della pellicola. Jean bambino: Nino Jouglet (straordinariamente bravo, intenso e posato); Jean adulto: Jacques Gamblin (teatralmente immerso nei luoghi e nello spirito che rappresenta); Madre di Jean bambino: Maya Sansa (donna con giusta presenza scenica); Madre di Jean adulto: Catherine Sola (di rara efficacia e compostezza); Lo zio Etienne: Nicolas Giraud (un ruolo compiaciuto da una buona prova); Hamoud bambino: Djamel Said (sguardo accesso e deciso); Hamoud adulto: Abdelkarim Benhabouccha (con giusta misura); Professor Bernarde: Denis Podalydès (misurato e ad hoc). La fotografia di Yves Cape è vigorosa e sentita: ridà vita e animo ad un passato morente nel bianco e nero. Colori pastosi e sublimi. I costumi di Patricia Colin confermano un lavoro accurato e delizioso. La regia di Gianni Amelio convince pienamente (con un soffuso spirito di passione regala inquadrature e carrelli di arte gentile e di perfezionata estetica).
Voto: 9/10.
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