Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
La lentezza è una condizione del tempo. È il suo cullarsi indifferente, tra passato e presente, nell’attesa di capire in quale direzione muoversi. È un guardarsi intorno impassibile, come di chi non si preoccupa di sentirsi smarrito. Cheyenne è fermo in quel fantastico indugio metafisico, che può durare anche all’infinito, fintanto che rinuncia a chiedersi perché. L’assenza e la negazione sono in grado di arrestare l’avanzare della storia, se rimangono testardamente senza motivo: come la mancanza di acqua nella piscina, la misteriosa scomparsa di Tony, la lontananza dalle scene di un famoso gruppo musicale. Per sospendere il corso della vita, e la questione circa il suo significato, è sufficiente smettere di cercare, di inseguire le risposte, i modi per migliorare la propria condizione, gli obiettivi che permettano di delineare i contorni del domani. Dopo le atmosfere ammorbanti de L’amico di famiglia e le ventose allegorie di cartapesta de Il Divo, Paolo Sorrentino decide di dedicare un film al respiro del vuoto, che immagina delicatamente affannoso, elegantemente sussurrato, pieno di una sospirosa provocazione rivolta contro l’attivismo positivo e la chiarezza d’intenti. L’esistenza di Cheyenne è un palpito privo di orientamento, che riempie lo spazio che gli è stato assegnato dal destino, senza mai sconfinare, e dunque senza mai poter agganciare il filo dei discorsi altrui. Il nulla rivendica la dignità della propria presenza indossando una maschera lunare, un po’ vagabonda, un po’ diabolica: l’immagine del protagonista è l’icona di una sofisticata emarginazione, sollevata da terra, collocata a metà strada fra un inferno intiepidito ed un cielo lambito dalle ombre notturne. Un Lucifero stanco incontra un Pierrot indispettito, per creare un personaggio amaramente etereo, cupo, ma dotato di una poetica levità striata di visioni infantili. Nella figura della ex rockstar di mezz’età il senso del declino si tinge di un’assorta frivolezza, fatta di un cinismo che non va a segno e si perdona, di battute che non fanno ridere e si dimenticano, di silenzi che, invece, gli altri mal sopportano e tentano di sconfiggere. In questo limbo di beato distacco, l’improvvisa irruzione della realtà, sotto forma di ritorno della memoria familiare, è lo scossone che, più che spezzare l’incantesimo, lo costringe a mescolarsi con l’emozione della novità. L’ignoto smette allora di essere un confortevole luogo di rifugio, per diventare un oggetto di passione: il padre, che Cheyenne non aveva mai veramente conosciuto, e che aveva cancellato dalla sua vita, nel momento della morte gli consegna in eredità un vecchio conto da regolare: il compito di dare la caccia ad un criminale nazista, forse per assicurarlo alla giustizia, forse per vendicarsi dei maltrattamenti subiti, o forse solo per stabilire la verità. La sosta finisce ed il viaggio comincia. Però prosegue, inalterata, la stessa magia di sempre, immersa nel dormiveglia che scruta il mondo con un occhio solo, lasciando che l’altro continui a sognare. La quieta brezzolina dell’immobilità può, d’un tratto, iniziare a gonfiare una vela. Il passaggio è naturale, impercettibile, e non elimina lo spostamento rispetto all’asse terrestre: semplicemente, trasforma l’alienazione di un satellite fuori orbita nella vertigine di un volo, fantasioso ma disciplinato, e diretto verso un approdo inatteso. This must be the place, cantavano i Talking Heads: Home is where I want to be.
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