Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
“E figli non ne hai?”
“No.”
“Perché?”
“Una rockstar non dovrebbe avere figli perché c'è sempre il rischio che ti venga fuori una stilista strampalata.”
“E perché non c'è acqua nella piscina?”
“Non lo so. Nessuno ce l'ha mai messa...”
Cheyenne (Sean Penn) è un ex-cantante residente a Dublino, ritiratosi da anni dalle scene ma ancora abituato ad andare in giro agghindato come ai tempi del suo gruppo darkwave: capelli lunghi e cotonati, trucco pesante agli occhi, rossetto, abiti scuri e andatura caracollante e mestamente incurvata in avanti.
Vive di rendita in tutta tranquillità, ha qualche investimento in Borsa, ma sono poche le cose che lo tengono davvero in vita, tipo la strana amicizia con la sua giovane e ribelle fan Mary (Eve Hewson) e lo spendidamente complementare rapporto con la moglie Jane (Frances McDormand).
In piena crisi esistenziale, Cheyenne di punto in bianco parte per New York, dove il padre, con cui non ha rapporti da trent'anni, sta morendo. Giunto negli Stati Uniti a decesso già avvenuto, riesce solo a dare l'ultimo saluto alla salma del padre, a rivedere un cugino e a fare la conoscenza del ricco ebreo Mordecai Midler (Judd Hirsch): costui mette al corrente Cheyenne del fatto che suo padre aveva trascorso tutta la vita nella ricerca infruttuosa del nazista che lo aveva umiliato ad Auschwitz. Da non professante la religione ebraica, Cheyenne decide di non fare ritorno dalla moglie: comincia così un estemporaneo viaggio negli Stati Uniti, trolley alla mano, alla ricerca di indizi e persone relativi all'ex ufficiale nazista Aloise Lange...
“L'inesorabile bellezza della vendetta, un'intera vita dedicata a vendicare un'umiliazione. Questa si chiama perseveranza, si chiama grandezza.”
Prima produzione internazionale con budget consistente per Paolo Sorrentino, “This must be the place” è ad oggi il suo progetto più sconclusionato e indeciso, sospeso ancora una volta fra registro leggero e drammatico come ne “L'amico di famiglia” e ancora una volta incapace di gestire l'alternanza in maniera equilibrata e comprensibile.
Una bella fetta di colpa va data ad una sceneggiatura, scritta dallo stesso Sorrentino a quattro mani con l'esperto Umberto Contarello, che delinea piuttosto male i personaggi e rende vano il talento di grandi attori come Sean Penn e la McDormand: Cheyenne, plasmato sulle fattezze del cantante dei Cure Robert Smith, è una nevrastenica macchietta carica di un infantile senso dell'umorismo e poco altro, mentre Jane scompare dal film in maniera inopinata, lasciando spazio ai camei insignificanti di David Byrne (ex-cantante dei Talking Heads, celebre gruppo new wave autore della canzone da cui il titolo del film) e Harry Dean Stanton. Anche i dialoghi e gli scambi di battute, lapidari ma privi d'incisività, talvolta sono pessimi, soprattutto quando tentano di battere la strada della profondità.
Visivamente “This must be the place” ha i suoi bei momenti, ma in linea di massima anche la regia di Sorrentino, sempre troppo preso dalla voglia di mettere una carrellata lì e un'inquadratura bizzarra di là, non è da promuovere del tutto. Il ritmo è spezzatissimo e a tratti irritante: scenetta riempitiva di due minuti e paesaggio con canzone sognante e malinconica in sottofondo. Quante volte si assiste a frammenti del genere, come se il film fosse una successione di videoclip artificiosamente struggenti? Troppi. E la colonna sonora curata da due pezzi grossi come il succitato Byrne e Will Oldham, che pure cerca di parlare direttamente al cuore, risulta inoffensiva. Va concesso che alcuni scorci sono bellissimi e ben fotografati dal solito Luca Bigazzi.
Sfugge però il senso dell'intera opera: Sorrentino è un autore ancora discontinuo e, quando s'innamora di se stesso, troppo superficiale per concedersi un film che cerca coraggiosamente di essere intimista e personale, ma che finisce col ricordare il capolavoro di David Lynch “Una storia vera” in versione parodizzata e mal riuscita con un mesto freak come protagonista. Il regista napoletano ama rischiare e di questo gli va dato sicuramente merito, ma questo non basta a salvare “This must be the place”, che si perde a girare su se stesso nel ritrarre alla rinfusa un protagonista in divenire assurdo, una provincia americana assai stereotipata e un tema tragico come l'Olocausto, riversato nel film in modo imbarazzante e posticcio.
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