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This Must Be the Place

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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La recensione su This Must Be the Place

di hupp2000
8 stelle

Cheyenne è una ex-rockstar. Benché ormai cinquantenne, ha conservato il look di trent’anni prima : capelli lunghi e disordinati, trucco barocco, rossetto eccessivo. E’ sposato e vive di rendita a Dublino. Un giorno, gli viene annunciata l’imminente morte del padre, con il quale aveva rotto da decenni ogni rapporto. Parte così alla volta di New York, dove giunge quando  il genitore è ormai deceduto. Decide allora di proseguire nella ricerca mai interrotta da suo padre del criminale nazista che, nel campo di sterminio di Auschwitz, era stato il suo aguzzino e torturatore. Raccontata così, la trama appare piuttosto lineare, comprensibile e sembra riprendere un tema mille volte sfruttato dal cinema di diversi paesi. In realtà, Paolo Sorrentino non sembra voler realizzare un film sulla Shoah e il suo mezzo secolo di strascichi. Il suo obiettivo è piuttosto quello di raccontare un personaggio assai singolare, realizzare un film on the road e mostrare un’America moderna e desolante come raramente si era vista. A tal fine, sceglie una struttura narrativa complessa, con tempi lenti, inquadrature lunghissime e una sceneggiatura quasi astratta. Alcune sequenze sembrano inserite solo a fini ornamentali, ma sono di rara eloquenza. Tre fattori basterebbero a rendere prezioso questo non facile film: la fotografia, la colonna sonora e la spiazzante interpretazione di Sean Penn. Iperrealista, luminosissima e quasi da cartone animato, la fotografia mi ha lasciato senza parole. Un vero delirio di colori e dorature, spazi immensi e campi lunghi abbaglianti. Non meno esaltante la strepitosa colonna sonora, affidata al genio musicale e ritmico di un David Byrne per nulla invecchiato dal punto di vista artistico. All’indimenticabile leader dei Talking Heads viene affidato un breve ruolo in cui interpreta se stesso ed esegue lo splendido  e vecchio brano del 1983 che da il titolo al film. Svetta sul tutto il personaggio incarnato da un idedito e insuperabile Sean Penn. Oltre ad un look volutamente gotico, l’attore si cala in ruolo degno di Dustin Hoffman nei panni di Raymond Rabbitt in « Rain Man » (1988), il capolavoro di Barry Levinson. Ha un modo di parlare ingenuo e lapidare, esprime concetti semplici ma di rara saggezza non è mai aggressivo. Una perla recitativa che funziona sia in versione originale che nel doppiaggio italiano, per una volta molto adeguato. La sfortuna di Sean Penn è stata quella di essere candidato come miglior attore protagonista per questo film a Cannes nel 2011, in concorrenza con un certo Jean Dujardin in « The Artist ». Sappiamo come è andata e, tutto sommato, è stato giusto così. Posso capire che a qualcuno il film sia apparso lento e di difficile comprensione, ma se si ama un certo tipo di musica e si apprezzano le classiche performances attoriali, se ci si lascia andare al piacere dell’occhio e dell’orecchio, quest’opera non può che lasciare il segno.

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