Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
L'ex-rockstar Cheyenne (truccato come Robert Smith dei Cure, con un nome che evoca Siouxsie Sioux di Siouxsie & The Banshees e la catatonia di un Ozzy Osbourne all'ultimo stadio del reality) conduce un'esistenza tranquilla e riservata nel suo buen retiro di Dublino in compagnia della moglie. L'improvvisa morte del padre lo costringerà a volare a New York e ad abbracciare la ragione di vita del genitore defunto, la ricerca dell'aguzzino nazista che lo ha umiliato nel lager di Auschwitz: la sua "quest" si tradurrà in un (invero tardivo) viaggio di formazione. "E io che cosa dovrei farci con questa roba?"... faccio mie le parole pronunciate dallo stesso Cheyenne intorno al 45esimo minuto di questo sopravvalutatissimo esordio internazionale del nostro Paolo Sorrentino, che penso esprimano bene il mio sconcerto di fronte ad un'opera formalmente bellissima ma totalmente squinternata, che comincia e prosegue per oltre mezz'ora come una sorta di commedia british un po' surreale sulla terza età di un musicista "bruciato", per poi trasformarsi, in maniera del tutto incongrua ed improponibile, in un lentissimo (ed americanissimo) road/vendetta-movie con tematiche ebraiche (vagamente nel solco di "Ogni cosa è illuminata") che lungo la strada (è proprio il caso di dirlo) perde totalmente buona parte dei personaggi e delle sottotrame che avevano caratterizzato il tutto sommato promettente incipit. Il tutto, purtroppo, condito da quel fastidiosissimo repertorio (che fa tanto cinema "alternativo") di silenzi sospesi, dialoghi laconici che vorrebbero proporre profondissime verità ad ogni piè sospinto e personaggi bizzarri e grotteschi. Una pellicola abilmente progettata per essere di culto, fin dalla scelta estetica di adombrare Robert Smith con il trucco e il parrucco del protagonista Sean Penn, per continuare con una ricercata colonna sonora sospesa tra Iggy Pop, Will Oldham e soprattutto David Byrne (protagonista del momento forse più intenso del film, con l'esecuzione quasi per intero della sua "This must be the place") e per finire con splendide e patinatissime immagini (i cieli riflessi nei parabrezza delle auto, i frequenti e calcolatissimi controluce, gli spazi vuoti dal sapore metafisico di certe ambientazioni americane). Sorrentino è bravo, non si discute, ma qui mi sembra abbia voluto davvero strafare, mettendo troppa carne al fuoco e facendosi prendere dall'ansia di dimostrare anche all'estero di essere un grande regista: peccato davvero, perché la possibilità di lavorare con una co-produzione internazionale e attori del calibro di Sean Penn e Frances MacDormand andava sfruttato decisamente meglio. La classica occasione mancata, il classico film che, indeciso sulla direzione da prendere, finisce per non andare da nessuna parte: due stelle.
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