Espandi menu
cerca
This Must Be the Place

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

Recensioni

L'autore

mm40

mm40

Iscritto dal 30 gennaio 2007 Vai al suo profilo
  • Seguaci 164
  • Post 16
  • Recensioni 11104
  • Playlist -
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su This Must Be the Place

di mm40
4 stelle

What happened to Sorrentino? Bisogna chiederselo in inglese, scendere sul suo stesso campo, per lottare ad armi pari con questo This must be the place, un lavoro spudoratamente realizzato per (piacere agli americani e quindi sostanzialmente) arrivare all'Oscar. Ma che intanto già a Cannes ha raccolto poco, certamente sotto le aspettative (solo il premio della giuria ecumenica). Forse il regista napoletano si è dimenticato di quanto sia stato facile scottarsi per Benigni, che dopo l'Oscar ha cercato di sfondare negli Usa con due lavori orientati verso quel tipo di pubblico (un Pinocchio pseudofelliniano e La tigre e la neve, apologo sull'amore) e che miseramente hanno fallito nel loro intento principale. Allo stesso modo l'indiscutibilmente talentuoso Sorrentino, che mai aveva sbagliato un colpo finora, decide questa volta di raccontare, con forte taglio esteticizzante, una storia di outsiders su messaggi universali e facili morali che pare scritta dallo Zio Sam in persona (la perserveranza premia; si può dimenticare ma mai perdonare; la paura è soltanto uno stupido limite alle nostre potenzialità e via dicendo). E invece è firmata dal regista stesso e da Umberto Contarello, uomo di fiducia di Mazzacurati e già collaboratore con Placido, Piccioni e altri. E pensare che questa sceneggiatura sfoggia una schematica solidità che in Italia - in questo periodo - si può considerare appartenga soltanto ai lavori di Vincenzo Cerami (l'utilizzo del tormentone, il continuo entrare e uscire dei personaggi nella storia, la presenza fissa in ogni scena di rimandi o anticipazioni di un'altra scena, per fare qualche esempio); ciò che fa implodere la formidabile struttura sono però (molti de)i suoi contenuti, di una banalità che talvolta fa ammutolire, oppure di una vacuità che lascia perplessi (esempio uno: la moglie, da 35 anni, di una rockstar miliardaria ha bisogno di lavorare ogni santo giorno come pompiere?; esempio due: la sequenza dell'indiano 'autostoppista': no comment). Il gusto esteticizzante (la fotografia è di Luca Bigazzi; bravo, tanto che potrebbe girare un film oppure uno spot: e qui sceglie, o meglio gli viene imposto di fare, un compromesso), si diceva, è poi esagerato: non si contano i momenti in cui Penn - pur bravo, ma in realtà sta recitando di nuovo I am Sam (Jessie Nelson, 2001) con una parrucca - si ferma, testa arruffata fra le mani o braccia conserte, e parte il quartetto d'archi. Perchè? A che serve? Oppure l'utilizzo del ralenty, o ancora il lunghissimo videoclip in odore di marchetta a David Byrne: il titolo del film è quello di una canzone dei Talking Heads; Byrne è autore di musiche e testo del pezzo; curiosamente Byrne compare in un cameo completamente inutile - e difficile a motivarsi logicamente - a metà della pellicola. A proposito di logica, non si cerchi di trovare un senso nel finale: Hollywood impone l'happy ending? E allora lo avrete, pure stuprando la verosimiglianza di tutto ciò che si è visto nelle due ore precedenti: Penn/Cheyenne smette i panni dell'adolescente (in cui si riconosce da sè e che comunque, se mai ci fosse dubbio, tutti gli addossano a ripetizione nel corso del film) esattamente quando è stato in grado di compiere una vendetta atroce, stupida e inutile, sfogando il desiderio infantile di rivincita del padre. Cheyenne è diventato un uomo? Nemmeno per sogno, perchè indulge nel fumo, nell'alcol, perfino nelle armi (che compra con nonchalance pur non essendo più cittadino statunitense da qualche decade, tanto per ricordare un'altra boiata). Venendo quindi a capo di tutte queste dolorose considerazioni, è inevitabile rimanere delusi da un film atteso tre anni e firmato da un regista che aveva saputo mostrarsi eclettico, originale, sarcastico, profondo nel precedente Il divo (2008): ecco, qui tutti questi aggettivi sono assolutamente fuori luogo. Più di Penn - che comunque certo non sfigura - colpisce la (solita anche questa!) bravura della MacDormand, mentre nel resto del cast, seriamente, prevale l'anonimato. Ultima nota sulla creazione del personaggio di Cheyenne: la forma è quella di Robert Smith dei Cure, la sostanza è quella di Vasco Rossi (del 2011, si intende) - oppure, concediamolo, di Ozzy Osbourne, sempre 2011; è lievemente disturbante uscire dal cinema e prendere coscienza di avere appena visto un film in cui Vasco va a caccia di nazisti. Ah, a proposito: che fine ha fatto Tony, il fratello di Mary? Boh. Neanche Tarantino in Deathproof era così sbadato nei confronti dei suoi personaggi. 4,5/10.

Sulla trama

Cheyenne è una rockstar miliardaria in declino: psicofisico, perchè ha abusato a lungo del suo corpo, e morale, perchè il ritiro dalle scene e la vita tranquilla nella placida Irlanda lo fanno sentire inutile. Un giorno viene avvertito della morte del padre, in America; corre al suo capezzale e si ritrova a dover compiere la sua ultima volontà: stanare e ammazzare l'uomo che lo ridicolizzò in un lager, oltre sessant'anni prima.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati