Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Qualcosa mi ha disturbato (come dice ad un certo punto Sean Penn) nella visione di questa pellicola. Che, a pensarci bene, somiglia proprio alla musica dei Talking Heads: carina, ballabile (si traduca: vedibile), con intuizioni eccellenti, ma, francamente moscia, noiosetta, “allungata”, a tratti fastidiosa(mente anni ottanta), troppo piena di minimalismi artificiosi. Sostanzialmente priva di reale forza ed efficacia, passa senza lasciare un segno decisivo, oltremodo annacquata da talune scelte incomprensibili o inutili.
Certo, il lavoro sulle inquadrature svolto da Sorrentino e da Bigazzi (col conforme contributo della scenografia) è da applausi: veri e propri quadri grotteschi e dissonanti, deforma(n)ti, nella cui “spostata” e surreale connotazione si riflette l’esistenza sintetica e monotona di Cheyenne, vilmente adagiata su fantasmi del passato e paure/angosce del presente. Ch’egli cerca di celare dietro una maschera di cera, muovendosi con passo titubante quanto bislacco, perennemente e fanciullescamente attaccato a (e trascinato da) un trolley, come un cordone ombelicale che lega il neonato alla madre.
L'immagine di Sean Penn/Cheyenne (che, invero, da mesi quasi ci aveva assuefatto) è impagabile: look dark con trucco pesante (oggi il corrispettivo sarebbero gli emo, giusto per capire dove si sta finendo); camminata dolente e incerta, ciondolante; voce sommessa (quasi un costante falsetto); risatina ridicola e beffarda. E occhi che perforano, attraversano lo schermo per calamitare a sé tutta l’attenzione. Del resto stiamo parlando di un attore immenso (splendido lo “sfogo” con David Byrne - lì la maschera s’è sciolta) che, evitando di rovinare sul rischio caricatura, riesce egregiamente a tratteggiare un uomo rimasto bambino, il cui naturale sviluppo è stato bloccato a causa del rapporto (assente) col padre. Il viaggio che intraprende nel cuore degli States, per dare la caccia al criminale nazista che aveva umiliato il padre nel campo di concentramento di Auschwitz, chiaramente rappresenta quindi quel percorso di crescita ed una prima fase di riconciliazione con la figura paterna.
Nulla di nuovo, quindi, ma non è in ciò il principale difetto: laddove This must be the place arranca, disperdendo la carica data dai suoi punti di forza di cui sopra, è nella eccessiva (e talora confusionaria) frammentarietà che (non) unisce i vari episodi, una fluidità presto sepolta sotto i colpi di tracce narrative fumose o insignificanti o poco interessanti, e che mal si amalgamano, costituendo dunque un prodotto “interrotto”, singhiozzante, che alla lunga (altro problema la durata del film) stufa e irrita, pur scorgendo semi di buon cinema, non germogliati, come il suo protagonista.
Tra l’ideazione e il (bel) finale c’è (più di) qualcosa che non va, che disturba il compimento di un lavoro che, nel complesso, si può valutare come appena sufficiente.
Ciò detto, Sorrentino è bravo (e lo sa) e merita sicuramente un’altra opportunità.
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