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This Must Be the Place

Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su This Must Be the Place

di alan smithee
6 stelle

Limitarsi a sintetizzare con un lapidario "sufficiente" la valutazione di un film di Sorrentino significa, piu' che in altre circostanze, che c'e' qualcosa che non convince nell'operazione. Quest'ultima sua attesissima opera, che lo vede per la prima volta coinvolto in una grossa co-produzione (nei titoli iniziali appaiono piu' sigle di produttori che nomi di attori, e fra i primi anche una nota banca italiana, forse in vena di diversificare i propri investimenti in epoche di magra dei mercati e dell'economia) e' segno evidente che in Sorrentino, autore di quattro tra i piu' bei titoli della ultima decade di cinema italiano, molti credono e vogliono investire: l'economia e la finanza oltre che i soliti uomini di cinema, e persino l'attore piu' apprezzato del mondo, incantato qualche anno fa dalla visione de "Il divo" mentre presiedeva la giuria del Festival di Cannes in cui concorreva appunto il film del regista napoletano.
E infatti in un certo senso Sorrentino non delude qualche aspettativa, soprattutto se si considera la bellezza, l'eleganza e soavita' con cui il regista muove la macchina da presa, o la scelta intelligente di procedere nel racconto piu' per singole sfumature che per avvenimenti, incentrandosi sulla potenza espressiva e poetica di ogni personaggio, dal protagonista alla piu' piccola apparizione (vedasi ad esempio il magnifico e delirante discorso del padrone del negozio di armi in cui si serve Sean Penn per attuare il suo sogno di vendetta e riscatto). Quello che invece a mio giudizio non funziona perfettamente e' innanzi tutto la recitazione un po' troppo manierata di Sean Penn, grande attore, ma che forse - un po' come talvolta un Pacino a briglia sciolta - necessita di essere trattenuto da un polso registico piu' fermo e autorevole, non fosse che per l'esperienza o la capacita' di imporsi ad una figura attoriale gia' quasi leggenda. La rock star in disarmo e depressa interpretata dall'attore offre momenti e inquadrature, tic e smorfie anche piacevoli, buffe e divertenti in un primo momento, ma che rischiano di scadere nel macchiettismo una volta che la macchina da presa insiste imperterrita sulla sua figura: non che non sia credibile un musicista cinquantenne che si concia in questo modo (si pensi ad Alice Cooper o Marilyn Manson e il nostro Cheyenne appare al confronto quasi un maestro di bon ton ed eleganza). Ma quello che piu' non quadra e' la complessa amalgamazione di tutta la vicenda, che deve far digerire al nostro stomaco, tutto sommato volubile, innanzi tutto il dramma della star depressa dai sensi di colpa per la morte di due ragazzi fan della sua musica funerea e poco incline alla gioia, il rammarico della mancata paternita' e la volonta' di riscatto nei confronti di madre e sorella di una delle vittime, poi il tentativo vano di riunirsi al padre, ebreo sfuggito al ghetto emigrando in America e che la star non vede da trent'anni, poi addirittura la scoperta che il persecutore del padre nel campo di concentramento risulta vivo e la volonta' del protagonista di improvvisarsi (con esiti davvero brillanti e fin troppo semplificati) spia e segugio efficacissimi sulle tracce dell'anziano carnefice.
Troppo dicevo, davvero troppo. Meglio allora godere delle singole interpretazioni dei personaggi minori che Penn incontra in questa sua indagine e ricerca, con particolare riguardo alle figure della moglie e maestra in pensione del vecchio nazista; della giovane nipote cameriera con figlio obeso e pieno di insicurezze, dell'inventore del brevetto valigia-trolley (uno straordinario e intenso Harry Dean Stanton), di David Byrne nella parte di se stesso, fantastico nel suo numero musicale e come spalla di Sean Penn. O ancora e soprattutto la sofferta e intensa interpretazione della madre  - piegata dal dolore - di una delle vittime della musica satanista dell'ex rock star, che offre una interpretazione davvero sorprendente ed intensa che finisce per svilire le mossette e la vocina da ragazzina di Penn, e che ci regala il piu' bel dialogo di tutto il film rivelando perche', tra tutti i vizi della rock star, non ci sia il fumo.
Il film nella seconda parte assume i toni di un vero e proprio road movie, in cui il polso registico di Sorrentino rende magico anche un piazzale abbandonato di un motel in cui l'erbaccia divora l'asfalto: ma si tratta piu' di uno sguardo ammirato di un bravo e talentuoso artista di passaggio in un territorio sconosciuto, che della rappresentazione schietta di un viaggio per la riscoperta dei valori della famiglia e dell'inutilita' di una vendetta tardiva quanto superflua. 

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