Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Questo è un grande film. Sono di parte. Mi piace Sorrentino e mi piace Sean Penn. Anche se sono eterosessuale e non sono una pop star come la Ciccone, ovvero MADONNA! Siamo vicini al capolavoro. Se non mi siete concordi, prendete un Concorde e involatevi in un campo statunitense a coltivare le cicorie. Scorie!
Ebbene, in concomitanza con l’uscita nelle sale italiane dell’ultima opus di Paolo Sorrentino, ovvero È stata la mano di Dio, in arrivo su Netflix in data 15 dicembre imminente, ci pare questa l’occasione migliore, giusta e pertinente per andare a ripescare una delle pellicole, giustappunto, firmate dal nostro premio Oscar per La grande bellezza, più affascinanti e forse controverse della sua già assai brillante filmografia imponente e fortemente, indiscutibilmente autoriale, cioè This Must Be the Place. This Must Be the Place è una pellicola della corposa ma fluida, assai scorrevole durata di due ore nette, minuto più minuto meno, distribuita dalla Medusa Film esattamente una decade fa, quindi nel 2011.
Accolta favorevolmente dalla Critica e molto amata dal pubblico, This Must Be the Place rappresenta, in ordine cronologico, la quarta opera di Sorrentino, arrivata precisamente due anni prima rispetto all’oscarizzato e succitato film La grande bellezza, direttamente dopo il suo sfolgorante esordio L’uomo in più (2001), Le conseguenze dell’amore (2004), L’amico di famiglia (2006) e l’acclamato Il divo (2008). Quest’ultimo presentato al Festival di Cannes quando a presiederne la giuria fu nientepopodimeno che Sean Penn. Il quale, assieme agli altri membri giurati, durante tale edizione della cannense kermesse, decretò la vittoria della Palma d’oro, assegnandola a La classe (Entre les murs), firmato da Laurent Cantet. Forse altresì, omaggiandolo con il Jury Prize, ebbe modo di approfondire la conoscenza, dietro le quinte, di Sorrentino, visionando inoltre e per l’appunto premiando Il divo e, così come da lui stesso successivamente dichiarato, apprezzandolo parecchio. Infatti, neanche a farlo apposta, fu Sean Penn il protagonista di This Must Be the Place. Il quale, di buon grado, in seguito alla proiezione de Il divo e alla conseguente sua ammirazione in merito, desumiamo facilmente che si persuase maggiormente di lavorare col nostro Sorrentino. Che, a sua volta e per la prima volta nella sua carriera, diresse un internazionale divo d’oltreoceano con esiti lusinghieri e decisamente soddisfacenti. Avendogli, difatti, impartito una direzione attoriale, così come prossimamente sottolineeremo, veramente degna di nota e non lasciandosi nient’affatto intimidire dalla forza carismatica di un attore difficile e rilevante a livello mondiale qual è Sean Penn. Famoso, peraltro, per i suoi frequenti scontri sul set con vari registi con cui collaborò. Celebri, infatti, i suoi litigi avvenuti con Woody Allen e Oliver Stone.
This Must Be the Place, co-scritto da Sorrentino insieme a Umberto Contarello a partire da un soggetto personale dello stesso Sorrentino, fu anch’esso presentato, alla pari de Il divo, in Concorso al festival di Cannes. Non vincendo però nessun premio ma, allo stesso tempo e come sopra detto, ricevendo comunque ottime critiche e aggiudicandosi ben sei David di Donatello. Fra cui quello per la Regia e quello andato alla canzone If It Falls, It Falls a cura di David Byrne & Will Oldham. E, a proposito di Byrne, This Must Be the Place (Native Melody) è anche il titolo omonimo d’una canzone del celeberrimo suo gruppo musicale, gli oramai scioltisi Talking Heads.
Trama: lo strampalato, buffo e creaturale Cheyenne (Penn), un tempo fu una rockstar glam di buon successo. Oggi, invece, è un “pagliaccio” di mezz’età che ancora pateticamente si trucca come se stesse ancora sul palco delle sue ex esibizioni canore. Vivacchiando alla giornata, vivendo privatamente con l’altrettanto stramba e lunatica, sebbene, rispetto a lui, ben più normalizzata, Jane (Frances McDormand). Cheyenne spende pigramente le sue giornate, spesso abuliche e malinconiche, passeggiando con una giovanissima sua amica di nome Mary (Eve Hewson). Che lui spera di salvare dal pessimismo esistenziale e dalla sua prematura indole nichilistica. Romantica, sì, però forse già troppo disillusa della vita in modo triste. Nel frattempo, gli giunge notizia che suo padre, molto anziano, sta morendo. Il padre risiede a New York, cosicché Cheyenne decide immantinente di mettersi in viaggio per andar a trovarlo. Purtroppo, si accorgerà presto, scioccato e atterrito, che suo padre è già defunto.
Scoprendo, per di più, che il padre si diede anima e corpo alla ricerca d’un terribile ex ufficiale nazista che, ai tempi della sua prigionia nei campi di concentramento, l’umiliò e perennemente angariò, tormentandolo oltremodo e in modo disumano e vile. Cheyenne si vendicherà dell’umiliazione orribile commessa a suo padre, vittima della fiera delle atrocità più imperdonabili e aberranti?
Bella fotografia di Luca Bigazzi, un cast eterogeneo ove, oltre ai menzionativi Sean Penn, in forma strepitosa, e la solita eccellente McDormand, fa la sua porca figura il compianto Harry Dean Stanton, in un cammeo al bacio, nei panni dell’inventore del trolley, Robert Plath, e si fanno notare le presenze di Shea Whigham (Joker, True Detective), Judd Hirsch, Kerry Condon e della sublime Olwen Fouéré.
Oltre, naturalmente, all’apparizione dello stesso David Byrne.
Colorato, fantasioso, inquietante, magistrale, This Must Be the Place mescola, con garbo e delicata levità amabile, alla pura poesia incantevole e alla magnetica potenza scenica d’un superbo Sean Penn anche in versione anomala da uomo purissimo, una messa in scena di finissima scuola cineastica veramente ragguardevole.
Ha qualche difetto, a volte infatti pecca di alcune ridondanze stilistiche non necessarie e, lungo i suoi centoventi minuti, si perde in pause ed estetizzanti parentesi digressive che, se non sbriciolano né intaccano la sua ipnotica e ammaliante compattezza visivo-diegetica, in più punti, comunque gli fan perdere sensibilmente quota visibilmente.
Riprendendosi, però in modo fiammeggiante, in un finale altamente emozionale e commovente, da pelle d’oca e stupefacente.
di Stefano Falotico
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