Regia di Peter Greenaway vedi scheda film
"Mr. Neville, io credo che un uomo davvero intelligente può essere soltanto un mediocre pittore. Perché dipingere richiede una certa cecità, un parziale rifiuto di accettare tutte le possibilità. Se è intelligente, l'uomo ne sa di più su quello che disegna di quello che vede, e nello spazio fra il conoscere e il vedere costui diventa condizionato, incapace di seguire un'idea con forza. Temendo che chi capisce, coloro ai quali egli vuole piacere, lo troveranno in difetto se non ci mette non solo quello che lui sa, ma quello che sanno anche loro. Voi, Mr. Neville, se siete intelligente come uomo, e dunque scadente come pittore, capirete che un'interpretazione come questa si fonda sugli indizi contenuti nei vostri disegni. Se voi avete, e io l'ho sentito dire, un talento di disegnatore, allora non vi dovrebbe essere difficile capire che gli oggetti che vi ho segnalato non indicano necessariamente un piano, uno stratagemma, o un'accusa.".
Ci proiettiamo nell'arte del guardare di Peter Greenaway senza mezzi termini e senza quiete, ma con la convinzione lampante e costante che ciò che si sta vedendo non è quello che si sta dicendo, e come il vedere sia necessariamente lontano dal conoscere. Sta dunque tra queste due dimensioni il dubbio conoscitivo che pervade lo spettatore. L'oscenità descritta ma mai osservata, discussioni su omicidi ed eventimai mostrati: l'intento di Greenaway è quello di cambiare costantemente le carte in tavola costringendo lo spettatore a scindersi fra ciò che vede e ciò che sente e ascolta dai personaggi di questo suo ambizioso thriller artistico, se così lo si può definire. Nei misteri che albergano non tanto nel giardino quanto nei disegni che il protagonista realizza di quel giardino (disegni commissionati sulla base di un contratto sporco e peccaminoso) rimbomba la distruttiva forza dell'allusione, quell'allegoria funesta e letale che mette in moto tutto ciò che può essere contemplato come il buonismo, l'ipocrisia e la finta eleganza di tutti gli ospiti della villa. Nell'Arte, che si presuppone come gioco intellettuale fine a se stesso (almeno all'inizio della pellicola, così come sembra lo stesso film di Greenaway), si rivela infine traduttore impassibile ma palpitante di una realtà che lascia arguire, lascia intendere, lascia presagire, ma mai comunica. Il carattere patinato che circonda la vegetazione di Compton House è la risposta a tutte quelle costruzioni aristocratiche e altoborghesi che i personaggi del film sono sempre stati impegnati a costruire e che la forza ribelle dell'Arte (e del pittore) riesce (geometricamente, tramite contratti) a smascherare (quantomeno di fronte a noi spettatori, ma senza alcuna risposta in ambito storico né prettamente umano), immagazzinando in una tela come in un'inquadratura tutti quegli oggetti e quegli indizi insignificanti su cui si possono basare le fuorvianti ma convincenti interpretazioni di uomini ciechi e sovente con cattive intenzioni. Dietro il trucco di tutti i personaggi e i loro parrucconi esagerati stanno identità straripanti ma celate, che tramano sotto la loro scorza ai danni di chiunque risulti un ostacolo nei confronti del loro perenne abbellimento di sé: in molti ambiscono al denaro di certuni, alcuni ambiscono alla morte di certi altri, e la trama si infittisce tanto quanto la matassa che si crea inestricabile fra ciò che vediamo, ciò che sentiamo e il valore solo fintamente illusorio dell'arte figurativa. Nel discorso che la figlia del proprietario della casa pronuncia di fronte al pittore, sul sottofondo gradito ma inopportuno di una natura sfavillante ma profondamente marcia, sta il confine ambiguo fra ciò che vuol dire conoscere (o ancora, sapersi comportare nel mondo, nella società, fra i vivi) e ciò che vuol dire vedere. Benché il discorso precluda la coesistenza di vista e conoscenza, in realtà è proprio la forza dell'Arte a suggerire uno strumento per la loro compresenza, e quindi la necessità di collegare ciò che si vede a ciò cui misteriosamente si allude: la scala, i vestiti sparsi, ovvero i sintomi di un'umanità denudata e rivelata. E infatti il film non poteva finire altrimenti, e non poteva far altro che conservarsi in un pessimismo estremo e senza rimedi, per cui l'utilità finisce per corrompere l'opera d'arte, l'ipocrisia la sensibilità artistica, il fuoco la verità dei fatti. Forse però l'arte ha un suo grado di sopravvivenza, si muove e si immobilizza in una statua o su un frontone per fotografare un pezzo di cruda realtà, e sta tutta nella capacità di esprimere e celare tutto (l'osceno, il ridicolo, il nobile, l'altissimo) e rigettare, disgustata (come nell'ultima immagine), il risultato di tanti parassitari fattori. Un film apparentemente bizzarro, che mira alla trasparenza dell'ambiguità.
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