Regia di Peter Greenaway vedi scheda film
Distorsioni, suggestioni e alterazioni, sistematica distruzione della narrazione tradizionale applicata alla sceneggiatura del film.
The draughtsman's contract (titolo originale “Il contratto del disegnatore”) è un gioco enigmatico e raffinato di rimandi fra pittura e cinema, un film che si snoda fra i colori vivi e le perfette simmetrie di un giardino all’italiana reso parlante dalla musica di Michael Nyman, collaboratore di Greenaway in 11 lavori.
Sinossi
1694, Inghilterra. Il signor Neville (Anthony Higgins), giovane artista di molti talenti fra cui bellezza e prestanza sessuale, viene incaricato dalla signora Herbert (Janet Suzman), moglie di un ricco proprietario terriero del Kent, di produrre una serie di dodici disegni della proprietà del marito, splendido maniero immerso nella campagna inglese.
Il contratto si estende molto oltre la realizzazione dei quadri, prevedendo che il signor Neville si prenda piacevoli intrattenimenti sessuali con la signora Herbert.
“Le condizioni dell'accordo, Mr. Noyes, sono: i miei servigi di disegnatore per dodici giorni per l'esecuzione di dodici disegni della casa con giardini, parchi ed edifici annessi della proprietà di Mr. Herbert. Le vedute dei dodici disegni saranno scelte a mia discrezione, tenendo conto del parere della signora.”
……………
“E in cambio, Thomas, sono disposta a pagare otto sterline a disegno. Ehm, a provvedere a vitto e alloggio per Mr. Neville e il suo servo e...”
“E..., signora?”
“Acconsentire di incontrare Mr. Neville in privato e soddisfare le sue richieste riguardo al suo piacere con me.”
Fedeltà nell’arte e infedeltà nella vita? O viceversa? O entrambe nel medesimo istante? Può l’arte risolvere il dilemma?
I misteri del giardino di Compton House è la prima pellicola che nel 1982 rivelò Peter Greenaway al pubblico internazionale.
Il regista, classe 1942, lunga preparazione accademica alle spalle, la pittura il suo polo di attrazione, la scuola veneta come società artistica di riferimento con Tiepolo, Veronese e Bronzino, fa del cinema la sua personale declinazione del linguaggio dell’arte, mutuando l’affermazione di Bresson: "Il cinema non deve esprimersi per immagini, ma attraverso rapporti di immagini. Così come un pittore non si esprime per colori ma attraverso rapporti di colore”.
La sua istallazione multimediale nel 2009 de Le nozze di Cana di Paolo Veronese nel Cenacolo Palladiano dell’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, occupa un posto d’onore negli Annali della Serenissima, e dopo la Ronda di Nottedi Rembrandt e l’Ultima Cena di Leonardo parla della sua dimestichezza con la tecnologia digitale, grande opportunità per la creazione dell’ opera d’arte fruibile in maniera multidimensionale, un genere svincolato dal punto di vista univoco tradizionale.
Il cinema di Greenaway si rivela già in questa prima prova (ma un lungo tirocinio di corti e documentari l’hanno preceduta) soprattutto come impatto visivo che immerga lo spettatore in un universo di simboli, dettagli, indizi.
I suoi temi prediletti, la sessualità e la morte, entrano così in un caleidoscopio in cui rintracciare una trama narrativa è impresa da non compiere.
Il gioco avvincente che Greenaway mette in campo attraverso continue distorsioni, suggestioni e alterazioni, è nella sistematica distruzione della narrazione tradizionale applicata alla sceneggiatura del film.
Trama narrativa, attori, cornice e macchina da presa li avvertiamo come obsoleti, limiti da superare per una diversa concezione dell’immagine.
A volerli a tutti i costi cercare elementi narrativi ci sono: un omicidio, alla fine ce ne saranno due, un adulterio, alla fine perfino un tradimento, un parterre de roi di cortigiani con assurde parrucche incipriate che sembrano torte di panna, dediti agli intramontabili intrighi della politica,
Una forte connotazione di stampo morale e di valore politico dà spessore, c’è uno sguardo severo e sarcastico sulla società corrotta di quella Inghilterra che non perdona nessuno, e si può tranquillamente trasferire ad epoche successive.
C’è un dialogo forbito, quello dei cortigiani e delle dames précieuses che popolavano quei salotti e parchi lussureggianti, un aforismario affidato a voce esterna o sovrascrittura da far gola agli enciclopedisti del ‘700, ma tutto questo è nulla rispetto alla bellezza pittorica di vedute che dalla realtà si trasferiscono nei quadri e viceversa.
Il mistero è inglobato nel reale, o in quello che sembra reale e un istante dopo finisce di esserlo, l’opera d’arte è da fruire in maniera multidimensionale, perché così è la vita, piani che si sovrappongono, si scompongono, si dispongono secondo logiche imperscrutabili che la memoria non conosce.
Solo la superficie è falsa, guai fermarsi ad essa.
Ed è quello che fa Neville, convinto di catturare la verità nei suoi paesaggi.
Ma perchè all’improvviso appaiono sulla tela oggetti che prima non c’erano? Menzogna narrativa? Miopia di chi guarda?
Niente di tutto questo.
La fiducia di Neville nell’oggettività dello sguardo sarà la sua rovina, il “contratto del disegnatore”, titolo originale del film, come ogni contratto che si rispetti contiene codicilli nascosti, misteriose vie di fuga inserite da esperti legulei, sorprese non piacevoli per il presuntuoso pittore pieno di fallaci certezze.
Film indicibile e inafferrabile, come la vita e, soprattutto, come l’arte.
“E’ difficile pensare che il concetto di immagine artistica possa essere espresso con una formula unica, chiara, precisa e comprensibile. Questo non è possibile né auspicabile. Posso soltanto dire che l’immagine tende all’infinito e conduce all’assoluto.” A.Tarkovskji
www.paoladigiuseppe.it
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