Titoli di coda
«È sdolcinato, è un film da donna! Mi verrebbe voglia di 'rigettarlo', come un organo trapiantato!» (Lars Von Trier)
Melancholia di Lars Von Trier, in concorso a Cannes 2011, è un film molto più levigato e patinato di Antichrist: pertanto può far pensare a un passo indietro, un conformarsi al format del cinema d'autore all'europea, soprattutto dopo gli eccessi [puntualmente puniti da critica e pubblico] dell'opera precedente. E invece, dietro le apparenze di una scrittura abbastanza tradizionale, troneggia ancora un insopportabile narcisismo autoriale: tant'è che Melancholia, dopo la presentazione di personaggi volutamente deja vu [le figure del cinema 'borghese' sono tutte qui], comincia a sfaldarsi tarkovskyanamente, a farsi sublime ed ironico, dissacrante e formalista. Un film senza rigore, infatti, sfilacciato e slabbrato, falsamente narrativo.
L'esagitato barocchismo di Antichrist ha soltanto cambiato forma, ed ha acquistato le sembianze di un classicismo patinato, fasullo – le inquadrature infatti sono sempre artefatte e traballanti, lo stile è carico. Denso. Come Antichrist, anche Melancholia celebra la pesantezza della firma vontrieriana [ralenti, mdp a mano, tableaux vivants, jump cut, Dogma, Tarkovsky]: e per questo non può essere considerato opera standardizzata, kolossal d'autore. Melancholia infatti è cinema a consumazione interiore, esercizio terapeutico. Catarsi.
«Ma cos'è che volevo? Una cosa è certa: partendo da uno stato d'animo, volevo buttarmi a capofitto negli abissi del romanticismo tedesco. Wagner a mille. Volevo un contrasto tra la grandezza stilizzata del romantico e un qualche tipo di realismo. La macchina da presa è quasi sempre tenuta a mano... Ma il problema è che avevamo un magnifico castello in Svezia, e se ci aggiungi anche un matrimonio con tanto di invitati in abito da sera e smoking, è difficile evitare... il bello. Forse tutto questo era un modo per parlare della sconfitta. Sconfitta al minimo dei comuni denominatori cinematografici» (Lars Von Trier)
La forma [bellissima] inganna, la mise en scène non guida lo spettatore, lo lascia da solo in una fitta selva di simboli. L'incipit di Melancholia, fra i più potenti del cinema recente, è un tripudio di effetti e citazioni: Wagner e Brughel, Borsch e Durer, Visconti e Tarkovsky, Bergman e Dalì. Ma la superficie inganna, [si] nasconde: proprio quando sembra celebrare la potenza immaginifica del cinema, Von Trier ne rivela l'artificiosità – è artificioso questo splendido incipit, come è artificioso [formalista] tutto il cinema del regista danese. Non c'è shining, non c'è 'luccicanza'. La verità [scientifica] non esiste, lo sguardo non è mai lucido, oggettivo – ergo la verità può essere dovunque. Il mondo esteriore esiste solo in funzione di quello interiore, e da esso viene rappresentato, modellato. In fondo Melancholia, il minaccioso corpo azzurro che distruggerà la Terra, è chiamato dalla stessa Justine [magnifica la sequenza di lei nuda che si 'offre' al pianeta]: è la materializzazione catastrofica di un sentimento.
Dice Von Trier:
«Justine mi somiglia molto. Il personaggio è ispirato a me e alle mie esperienze di profezie apocalittiche e di depressione. Desidera "naufragi e morti improvvise", come dice lo scrittore danese Tom Kristensen. E li ottiene anche. In un certo senso, è lei che attrae il pianeta Melancholia e gli si arrende».
Perciò Melancholia continua il discorso di Antichrist con incredibile coerenza: Von Trier guarda ancora Tarkovsky. La sua ossessione è la fluidità impossibile da fissare dell'immagine, l'impossibilità di “scolpire il tempo”. Melancholia è un Offret rovesciato: la seconda parte è un inabissamento, la narrazione che si sfalda. Una volta la fede poteva salvare [di nuovo Tarkovsky], oggi invece, in piena dittatura della ragione, non c'è più speranza. Rimane la nuova lucidità (consapevolmente inutile, apparentemente facile) di Justine, la certezza dell'immodificabilità del reale.
Dunque Lars Von Trier è nichilista? Sicuramente. Ma la serena consapevolezza che conquista Justine non è certo inutile: almeno rende più sopportabile la fine, ne cancella il peso nella libertà di un gioco, nell'illusione serena ed infantile di un'invenzione [Nietzsche?]. La 'capanna magica' che Justine costruisce con il figlio decenne di Claire è il cinema vontrieriano – una 'dolce bugia', come lo era il musical di Dancer in the Dark, o le campane digitali di Breaking the Waves. La capanna è l'albero di Offret – senza però nessun messaggio per il futuro. Von Trier infatti non ci illude con false vie d'uscita: la fine tanto attesa arriverà. Ma se l'incipit inquadrava da fuori, con occhio 'scientifico' la catastrofe, ora il regista danese tiene la macchina da presa sulla Terra. L'immagine "esplode". Von Trier fissa di nuovo la fine, e cosa c'è oltre: il nero assoluto.
Titoli di coda
«È la fine di Trier? Mi aggrappo alla speranza che in tanta melassa possa esserci una scheggia d'osso capace di rompere qualche dente... Chiudo gli occhi e spero!» (Lars Von Trier).
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