Regia di Lars von Trier vedi scheda film
O della soggettività.
Melancholia prosegue un cammino già intrapreso con Antichrist. Un percorso pericoloso; un sentiero che conduce, senza mediazioni, nella “mente” di un regista-artefice-demiurgo; un’operazione che porta al limite estremo la tensione tra l’opera e il suo autore. Trier non ha fatto economia nel proporre soluzioni ermeneutiche ai suoi due film. Riguardo a Melancholia, quasi ergendosi a novello Flaubert, ha dichiarato, in più di un’occasione, che «Justine c’est moi». Dunque, un’urgenza nel dichiarare le proprie intenzioni, per comprendere quanto questi siano film da leggere sotto una prospettiva totalmente soggettiva. È un bene? È un male? Questo è lo scacco, il grande ricatto di Trier – che forse, non è troppo dissimile dal ricatto malickiano di The Tree of Life -: dover accettare completamente la visione del regista, oppure rigettarla nella sua strabordante totalità. Melancholia, in questo, fa un passo avanti, e porta lo “scacco” trieriano ad un livello successivo rispetto ad Antichrist. Se nel film precedente, lo scacco era il filmico, in Melancholia diviene letteralmente profilmico. Trier è Justine. Trier/Justine vogliono la fine del mondo, e la fine del mondo avviene. Trier ha dichiarato in più di un’occasione di aver voluto fare un film “romanticista”. Io parlerei piuttosto di film “fichtiano”, attraversato da una sorta di idealismo soggettivo. È l’”io” (Trier/Justine) che dà forma e contenuto alla conoscienza: un “io” che annulla la “cosa in sé”, per farsi assoluto. Un “io” che scuote, non più soltato la mise en scene [e su questo suggerisco di leggere il commento di lorebalda su Antichrist], ma che abbraccia la trama, il film stesso. «Justine mi somiglia molto» dichiara Trier. «Il personaggio è ispirato a me e alle mie esperienze di profezie apocalittiche e di depressione. Desidera ‘naufragi e morti improvvise’, come dice lo scrittore danese Tom Kristensen.». L’”io” di Justine [ma anche l’”es”, se volessimo chiamare in causa anche la psicanalisi] si identifica nel pianeta Melancholia che distrugge la Terra. La sua volontà pessimista - che può anche appartenerci - si allarga fino ad abbracciare questo film-mondo [un’espressione alquanto discutibile e abusata, ma che forse trova il suo unico riscontro esatto proprio in questo film], per poi crollare, lasciando uno schermo nero. Un film che trascende qualunque principio di verosomiglianza – nonostante Trier dica di averla ricercata – per diventare urgenza di pessimismo cosmico, di dubbia eticità, di cattivo gusto, di privazione di alcun senso, se non quello della totale affermazione dell’”io”. Un film che traballa su se stesso, per la sua portata esponenziale, pieno di cadute di stile, di vuoti narrativi, di imperfezioni [sulle quali non posso chiudere un occhio, e che segnano anche il mio giudizio “in stellette”], ma che, di certo, apre una via di non ritorno per una concezione (ultra)soggettivizzata del cinema.
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