Espandi menu
cerca
Melancholia

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

Recensioni

L'autore

(spopola) 1726792

(spopola) 1726792

Iscritto dal 30 novembre -0001 Vai al suo profilo
  • Seguaci 7
  • Post 97
  • Recensioni 1226
  • Playlist 179
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Melancholia

di (spopola) 1726792
10 stelle

Qui von Trier prova ad esplorare il pianeta del disagio esistenziale, una delle malattie endemiche del presente. Lo fa, mettendo in scena l’apocalisse con una sensibilità e uno stile intenso e controllato che gli consente di toccare i vertici della percezione emozionale e di determinare un malessere profondo anche in chi osserva dalla sala.

Qualche tempo fa, accingendomi a scrivere sul sito il mio personale pensiero su Antichrist, la precedente, sofferta fatica cinematografica di Lars Von Trier, partii da un’analisi più generale che credo valga la pena riprendere quasi integralmente pure in questa occasione, poiché mi sembra che poco sia cambiato riguardo a ciò che avevo evidenziato allora, e che il discorso resti di conseguenza assolutamente pertinente (e forse ancora di più) anche se ricondotto a questa sua ultima pellicola (di altrettanta straordinaria rilevanza oltre che di analogo e corrispondente coinvolgimento personale) che rappresenta il secondo tassello all’interno di una trilogia del dolore che ha come figura principale la donna, almeno come fulcro prioritario di una complessa indagine comportamentale disturbante e in parte dissociata, inaugurata appunto con la violenza estrema di Antichrist, proseguita poi con la depressione distruttiva di Justine in questo Melancholia, e che si accinge ad arrivare alla sua inevitabile conclusione (immagino altrettanto drammaticamente tragica) con il già annunciato e promesso Nymphomaniac(per Roy Menarini il porno che prima o poi era inevitabile che Von Trier si accingesse a girare) già previsto nel programma dell’imminente Festival di Cannes e sul quale ovviamente nutro fondate aspettative in positivo.

In tale circostanza, esordii col dire – e lo ripeto adesso con altrettanto vigore - che non si può oggettivamente ignorare il valore assoluto del cinema di questo discusso regista, talmente estremo da rasentare a volte il parossismo. Von Trier infatti arriva spesso a forzare la mano oltre i limiti del tollerabile - sconcertando così lo spettatore che prova a risvegliare da un letargo che sembra ottundere le menti dei più – ricorrendo a inediti, inusuali e inaspettati “punti di rottura” sbattuti in faccia senza mediazioni con i quali è molto faticoso confrontarsi, difficili come sono da metabolizzare per la crudezza delle immagini, ma per lui assolutamente importanti e necessari per creare quel disagio profondo che dopo un inevitabile sconcerto iniziale, possa poi spingere alla riflessione e al “ripensamento” ponderato delle cose e a un’analisi scevra da pregiudizi.

Von Trier è dunque uno che non ama la fruizione passiva delle cose, e che di conseguenza, con i suoi lavori tende a determinare una sorta di scombussolamento generalizzato che riguarda soprattutto la sfera emozionale, cosa che porta inevitabilmente a radicalizzate il giudizio degli spettatori (ma anche della critica) che si dividono inesorabilmente fra coloro che lo amano incondizionatamente e coloro che invece lo odiano e lo rigettano con altrettanto vigore, poiché con lui la via di mezzo credo che sia se non del tutto impossibile, per lo meno molto difficile da immaginare.

Ad ogni buon conto però io sono altrettanto convinto che comunque la si pensi – e quindi anche in caso di un viscerale rifiuto del suo disfattismo abissale - non sia mai possibile liquidare la sua opera  con l’eccessiva supponenza con cui viene spesso messa alla berlina da chi gli attribuisce semplicemente e unicamente la voglia di essere “provocatorio” che pure è a volte una componente non secondaria (ma tutt’altro che univoca) del suo fare cinema.

Io come ho già accennato in altre occasioni, mi pongo in una posizione per quanto possibile più mediata (ma credo che alla fine nemmeno la mia sia del tutto neutrale), nel senso che non lo amo follemente, ma certamente non lo “rifiuto” nemmeno a prescindere, come si dice in genere in questi casi, così che i miei giudizi sui risultati da lui conseguiti sono abbastanza “altalenanti,” esattamente come lo è stato per quel che mi riguarda, anche il suo percorso artistico, ma mai totalmente negativi nemmeno quando mi sono trovato a fare i conti  con un sotterraneo “senso di irritazione” che anche in me a volte suscita – devo ammetterlo – quel suo voler andare oltre. Cerco infatti di non lasciarmi travolgere da quel disagio disturbante che ha cagionato la “chiusura” che spingerebbe  inevitabilmente, almeno nell’immediato, a privilegiare la reazione dell’avversione, quel sentimento indotto quasi di “ripulsa” che se lo lasci poi sedimentare, ti consente invece quasi sempre di “comprendere meglio” il senso ultimo di quelle “dissacrazioni”, magari a volte persino un tantino programmatiche, ma comunque sempre opportune e soprattutto necessarie per il “disegno” complessivo (la tesi), il progetto, l’architettura cinematografica del manufatto che ha così “rumorosamente” deflagrato sullo schermo (e spesso anche dentro la coscienza dello spettatore) poiché ti permettono di comprendere cos’è che è stato messo in movimento e fatto emergere dal profondo dell’inconscio da metterti sulla difensiva, visto che c’è sempre una spiegazione molto personale e “interna”  dietro a una “negazione” tanto categorica (e questo torna utile anche per capire meglio e di più se stessi e le proprie défaillance). Perché al di là delle tematiche e delle “definizioni teoriche” della forma, che Lars Von Trier sappia “girare” con cognizione di causa, riesca a impaginare bene la preziosità (o la sciatteria, a seconda della strada “strategicamente” scelta che è spesso imprevedibile e contrapposta) delle immagini, è un pregio fondamentale che gli deve essere in ogni caso riconosciuto. Di conseguenza, se non fosse per altro che per questo, almeno in considerazione di ciò, dovrebbe essergli concesso da chiunque (mi riferisco principalmente alla critica naturalmente) il “privilegio” di un’analisi strutturale senza preconcetti e “partiti presi” così da far emergere e motivare – anche se in negativo, non importa - un circostanziato “giudizio di merito” provando a dimenticarsi della tracotanza un po’ strafottente (o a tenerla per lo meno sottotraccia) che si avverte sovente dietro le sue parole sparate con esternazioni verbali spesso allucinanti fatte con lo scopo precipuo di creare subbuglio e suscitare clamori mediatici che attengono però più alla “vanità espositiva” della persona (indubbiamente abbastanza deprecabile) che all’artista, due posizioni che per quanto possibile, dovrebbero sempre restare disgiunte.

Io per altro avverto davvero in questa sua ultima stagione creativa, una corrispondenza profonda e quasi disperata con un suo personale “vissuto” di sofferenza, in parte tamponato proprio con la forza terapeutica del suo fare cinema, cosa che lo porta adesso – e molto più di quanto non facesse in precedenza - a mettersi in gioco in prima persona, sia pur traslato nelle forme delle sue controverse, tormentate protagoniste femminili (un’altra scelta assolutamente non omologata)  che diventano così proiezione diretta della sua anima e dei suoi patimenti esistenziali: il film è stata anche una mia terapia – dichiarò il regista quando fu intervistato dopo la prima proiezione ufficiale di Antichrist - non saprei perché, ma scriverlo mi ha sbloccato e realizzarlo mi ha fatto sentire molto meglio. Non chiedetemi il motivo, cosa sono riuscito a mettere della mia depressione nel film e come mai questo mi abbia aiutato ad uscirne, ma è così. “Antichrist” mi ha guarito, e per questo lo ringrazio e lo apprezzo molto. 

Mi sembra dunque importante tenere ben presente e di nuovo proprio questa sua dichiarazione, poiché a mio avviso con Melancholiaha provato ad andare ancora più avanti in questo percorso di edonistica esposizione (probabilmente anche un po’ narcisistica) con cui, attingendo dalla sua personale esperienza di alienazione mentale trasposta in una forma cinematografica efficacemente suadente e inappuntabile, riesce a rappresentarci con assoluta precisione, che cos’è e cosa provoca la depressione (Roy Menarini ha scritto al riguardo su Duellanti: La società borghese di oggi, organizzata attraverso cerchi concentrici di famiglie, dentro comunità di amici, professioni ciniche, stati burocratici odiosi, riti laici meccanicistici, prigioni culturali ormai insuperabili, rappresenta per Von Trier il male assoluto al quale l’artista reagisce col cinema che utilizza come si è visto, in forma fortemente terapeutica, facendo però esplodere – probabilmente a fronte del suo disadattamento - tutta la rabbia che ha covato a lungo dentro).

E’ indubbio allora che è proprio in Justine che si riflette e identifica il regista (Justine c’est moi, potrebbe dunque tranquillamente affermare), una figura così fragilmente incapace di far fronte all’indifferenza del mondo da essersi resa impermeabile persino al sentimento.

Con Melancholia prova quindi ad esplorare proprio questo particolare pianeta del disagio esistenziale, e per farlo, mette in scena l’apocalisse con una sensibilità e uno stile intensi e  controllati al tempo stesso, che gli consentono di arrivare ai vertici della percezione emozionale nel suo riuscire ad essere così tragicamente lancinante da determinare un malessere profondo anche in chi osserva dalla sala.

La sua è una costruzione inedita e personale, pittorica e musicale al tempo stesso, che lo conferma come uno dei più singolari creatori di nuove forme cinematografiche che si rinnovano di volta in volta quasi rigenerandosi, a partire dall’impaginazione generale del racconto. Di conseguenza e lo ripeto, credo sia davvero difficile non riconoscere che in ogni caso nelle sue opere – anche le più discutibili - si nascondono sempre temi importanti, soluzioni, spunti e suggestioni, che nessun altro “inventore” di immagini cinematografiche propone con altrettanta forza, e che la sua voglia di innovazione stilistica lo porta a sperimentare inusuali strade narrative e di visione fortemente conturbanti che creano empatia anche quando diventano quasi insostenibili allo sguardo. Sarà dunque anche un manipolatore come qualcuno lo ha definito, ma credo proprio che abbia poca importanza, se poi ogni volta, rimodellando persino il suo modo di “creare sensazioni” (e basta analizzare l’intera sua opera per non trovarlo mai uguale a se stesso) riesce sempre ad architettare qualcosa di sorprendente e spiazzante e a rendere grande la sua arte se (come in questo caso) anche l’ispirazione è genuina.

Si conferma purtroppo però anche un discutibile provocatore, cosa che quasi sempre si risolve a suo danno, quando per esempio se ne esce con clamorose esibizioni fuori dalla logica e dal buon senso, come le folli dichiarazioni fatte a Cannes, talmente “inaccettabili” da farlo diventare immediatamente un “indesiderato” outsider, ed è stato un vero peccato perché così ha precluso alla sua straordinaria creatura di essere valutata per quello che avrebbe veramente meritato.

Mi chiedo infatti spesso come avrebbe potuto essere il verdetto finale dei Palmares se avesse avuto la decenza di starsene zitto, poiché indubbiamente Melancholiaera in effetti l’unica pellicola che poteva contrastare The Three of the Life di Malick, altrettanto importante e innovativa anche nella forma, da porsi se non esattamente sullo stesso piano, per lo meno a una distanza molto ravvicinata.

Guardando dunque proprio all’imbarazzante comportamento del cineasta durante la conferenza stampa del film, si può forse constatare come il regista sia clamorosamente riuscito a danneggiare nell’immediato e irrimediabilmente, proprio il suo film. Magari se ne è anche accorto di stare esagerando, ma ha proseguito ugualmente nell’attacco, pigiando ancor più forte sul pedale per tentare di recuperare in corner ricorrendo a quelle discutibilissime argomentazioni che hanno peggiorato ulteriormente le cose ponendo fosche ombre sulla sua figura, tanto da essere stato alla fine addirittura allontanato dalla Croisette quasi con ignominia. Mai parlare a sproposito per fare i “ganzi” e pretendere di andare ad ogni costo contro corrente, dunque: è meglio ricordarsi sempre che “il silenzio è d’oro” e che i proverbi sono la saggezza dei popoli.

Adesso che il tempo trascorso ha provveduto a rimarginare molte delle ferite aperte in tale circostanza, possiamo comunque tranquillante tornare a concentrarci esclusivamente sul suo cinema che con Melancholia torna ad essere di nuovo affascinante (persino destabilizzante se si vuole) con i frenetici movimenti a mano della macchina da presa e i suoi improvvisi ondeggiamenti, gli “schiacciamenti” sui volti, gli zoom, gli stacchi veloci, le fibrillazioni e le pittoriche staticità, come se il virtuosistico ed esibito “squilibrio” di uno sguardo sempre in movimento aspirasse qui a diventare una reiterazione ipnotica da utilizzare per comunicare e rendere tangibile la progressiva mancanza di energia (lo sfinimento della depressione di Justine) alla ricerca di un punto di equilibrio sia pure fluttuantemente instabile, ma comunque necessario per intercettare le traiettorie intermittenti che uniscono e distanziano le due sorelle.

 

No, no, go not to Lethe, neither twist
Wolf's-bane, tight-rooted, for its poisonous wine;
Nor suffer thy pale forehead to be kiss'd
By nightshade, ruby grape of Proserpine;
Make not your rosary of yew-berries,
Nor let the beetle, nor the death-moth be
Your mournful Psyche, nor the downy owl
A partner in your sorrow's mysteries;
For shade to shade will come too drowsily,
And drown the wakeful anguish of the soul.
But when the melancholy fit shall fall
Sudden from heaven like a weeping cloud,
That fosters the droop-headed flowers all,
And hides the green hill in an April shroud;
Then glut thy sorrow on a morning rose,
Or on the rainbow of the salt sand-wave,
Or on the wealth of globed peonies;
Or if thy mistress some rich anger shows,
Emprison her soft hand, and let her rave,
And feed deep, deep upon her peerless eyes.

She dwells with Beauty--Beauty that must die;
And Joy, whose hand is ever at his lips
Bidding adieu; and aching Pleasure nigh,
Turning to poison while the bee-mouth sips:
Ay, in the very temple of Delight
Veil'd Melancholy has her sovran shrine,
Though seen of none save him whose strenuous tongue
Can burst Joy's grape against his palate fine;
His soul shalt taste the sadness of her might,
And be among her cloudy trophies hung
. (John Keats, Ode alla malinconia)

 

L’esposizione drammatica espansa che caratterizza gran parte del cinema del regista, in Melancholia si determina e si esplicita comunque non tanto nell’impiego di quegli elementi disturbanti diventati ormai una delle sue più riconoscibili cifre stilistiche, quanto nella creazione di dirompenti immagini di romantica e disperante magnificenza che per potenza espressiva e originalità del soggetto, lasciano sorpreso, esterrefatto e quasi atterrito lo spettatore.

Come se ci trovassimo di fronte a un componimento epico, è questa volta l’insolito utilizzo di un travolgente preludio a farci entrare subito e prepotentemente dentro la materia pulsante della storia, una specie di “proemio”di inusitata bellezza, perfetto ed appropriato non solo per dare forma alla giusta atmosfera, ma anche per annunciare, anticipandocene l’impatto, i momenti salienti che troveranno il loro naturale sviluppo nel prosieguo del racconto nel suo lento declinare verso l’annientamento finale.

Un incipit di straordinaria potenza espressiva insomma fatto di immagini superbe, misteriose e astratte, spesso rarefatte o “rallentate” e quasi surreali, di grande suggestione emozionale, concertate e plasmate sull’insinuante incedere dell’inebriante e lussurioso cromatismo wagneriano (le note dell’ouverture del Tristano e Isotta) che ritorna poi con prepotenza in più momenti, come a voler esaltare la dimensione primaria di un melodramma che presto sfocerà nella tragedia: uccelli che piovono dal cielo; una madre che corre lungo le pendici di un declivio collinoso con un bambino in braccio; una sposa che arranca in un bosco con le caviglie e i polsi attorcigliati da lunghe liane che emergono dal suolo a rallentarla… un susseguirsi incessante di rappresentazioni pittoricamente quasi metafisiche e fortemente oniriche (magnificamente coordinate con i toni sfuggenti della musica) che si riproducono in veloce successione e i ritmi dilatati della sospensione, che creano inediti conflitti spesso disgreganti fra ciò che viene esposto in primo piano e il panorama generale della scena con modificazioni anche cromatiche affini a certe correnti fotografiche della contemporaneità che sembrano ispirarne il tracciato, tendenti a rendere un po’ “irreale” e “sognata” la percezione delle cose.

Ed è così allora (ma questo lo ritroveremo poi anche dentro tutta la restante pellicola) che andando ben oltre un parco molto “marienbadiano” nella concezione messo a circoscrivere la villa (mi riferisco soprattutto alla disposizione geometricamente simmetrica degli alberi resa ancor più evidente dalle riprese “frontali”), lo sguardo si allarga spesso verso gli spazi infiniti del cielo e il mare aperto che segna l’orizzonte. Eliana Elia definisce il tutto come il misterioso respiro di paesaggi indistinti, remoti dai quali si accede alla vertigine del sublime, e i riferimenti figurativi che spingono in tale direzione, sono evidenti e palpabili: è il pallore ceruleo della luna che si conferma anche qui una severa maestra[1] a darci tale sensazione, lanterna magica lontana e irraggiungibile che illumina i nostri incubi, così come riescono a farlo i corruschi firmamenti notturni trapuntati di stelle scintillanti o l’arcano, azzurrino biancore del pianeta Melancholia che i personaggi contemplano talvolta con occhi ammantati di stupore, altre con il raccapriccio crescente e la paura dell’imminenza della fine. Sono proprio queste visioni sublimi che ci fanno immaginare di essere davanti (o persino dentro) a un’opera simile a un quadro di Caspar David Friedrich[2] o di Arnold Böchlin[3], tanto per ci tare i primi due nomi che mi vengono in mente (e non sono il solo ad averli presi a riferimento): paesaggi foschi e suggestivi popolati da figure, prospettive e oggetti fortemente inquietanti, quasi irrazionali, che preannunciano l’angoscia e la tragedia (i cavalli agitati nella stalla, la neve che cade fuori stagione) poiché il film è tutto concepito come un percorso fatto di stordenti capogiri e di “vertigini” improvvise che porteranno alla “caduta” terminale anticipata già dallo sguardo di Justine che percepiamo come spento, inespressivo, rivolto verso il nulla, disabitato da ogni pensiero e sensazione, fino dai fotogrammi del prologo.

Ancora secondo Eliana Elia però, Melancholia non è solo la simbolica traduzione del Weltschmerz[4] (quello stato d’animo che si prova nel cogliere l’ineffabilità della condizione umana e che può trasformarsi in negazione tragica, disperazione metafisica): è anche (…) la dolorosa esperienza psicotica tipica della depressione i cui aspetti sintomatologici sono presentati dal regista con impressionante autenticità. E già i titoli di testa insieme alle sequenze iniziali, sono particolarmente rivelatori al riguardo con le loro prospettive leggermente artefatte e quasi deformate che rimandano a un clima di derive un po’ fantascientifiche (nel segno del Solaris  di Andrej Tarkovskij, si potrebbe azzardare) attraversate però da pulsioni distruttive che vanno ben oltre la superficie esterna della convenzione e finiscono così per incidere profondamente sullo spettatore che ne rimane coinvolto e stravolto se ci si abbandona senza troppe remore lasciandosi trasportare dal cuore.

Nel film è infatti totalmente scardinato il tema ricorrente della “sposa felice” che è il primo luogo comune messo in discussione: nel suo abito bianco, Justine come si è già visto, si immagina legata a corde che le impediscono di camminare, mentre è con il bouquet di fiori ancora  fra le mani che si vede fluttuare inerte nell’acqua come la folle e infelice Ophelia di Millais[5] (la ripresa frontale del corrispondente tableau vivant è di grande impatto non solo visivo, ma anche emozionale). Ed è proprio questo dipinto – insieme ad altri, fra i quali i Cacciatori nella neve di Bruegel[6] e Davide con la testa di Golia di Caravaggio[7] - che la donna cerca freneticamente fra i libri d’arte nello studio della villa per sostituirli a quelli di Malevi?[8] esposti alle pareti della libreria – che prova a scandire per molto tempo il “ritmo” visivo della narrazione, quasi che lei – esattamente come il regista – non tollerando il controllo e il rigore razionale dell’espressione espositiva delle forme che domina le geometrie suprematiste del pittore russo, cercasse di sostituirle con rappresentazioni più concrete e consone al suo stato quasi catatonico in cui poter infine vedere riflessa tutta la propria angoscia (il senso di sconfinata solitudine e di freddo agghiacciante che si percepisce in Bruegel e l’orrore dei lineamenti congelati dalla morte della testa tagliata e ormai senza vita di Golia i cui spenti occhi sgranati sembrano attonitamente impegnati a scrutare il vuoto).

 

Quieta e dolce malinconia dove tu piangi e non sai perché (Giacomo Leopardi).

 

La storia è strutturata in tre differenti segmenti, un prologo (a cui ho già accennato sopra) e due parti successive, una intitolata a Justine, e l’altra a sua sorella Claire, anche se poi l’autore continua a focalizzarsi soprattutto su Justine per quella specie di osmosi identificativa che li fa essere quasi una sola cosa, o per meglio dire, la proiezione dell’uno nell’altra.

Dopo il proemio dunque, con un brusco cambio di tono, inizia il racconto vero e proprio, ed è così che progressivamente, scoprendo lentamente le sue carte, Melancholia ci mette di fronte alle nostre paure più nascoste ed ancestrali senza concederci più tregua, perchè anche quando la fine del mondo è imminente e tutto è irrimediabilmente perduto, la macchina da presa continua a filmare impietosa e inesorabile l’angoscia, fino al momento estremo in cui nessun occhio può più essere cosciente  testimone vivente dell’evento, e ci sconvolge con un finale mozzafiato che si imprime come una traccia indelebile nella memoria con le sue desolanti prospettive depurate da ogni residua positività, perfetta e nichilistica sintesi di tutto quello che è accaduto prima e che il regista – implacabile – ci ha mostrato sullo schermo senza risparmiarci nulla.

 

Primo segmento: “Justine”

 

Justine (l’ottima Kristen Dunst, giustamente premiata come migliore attrice a Cannes) e Michael (Alexander Skarsgärd) che si sono uniti in matrimonio proprio quel giorno, sono in ritardo sul tabellino di marcia poiché la lussuosa limousine che hanno scelto per recarsi al castello dove si celebreranno i festeggiamenti delle nozze, è troppo ingombrante per avanzare indenne lungo lo stretto sentiero, e ogni tanto si incaglia procedendo poi a rilento fra gli arbusti e gli spazi angusti del selciato dissestato. Mentre gli sposi sembrano non preoccuparsi troppo per l’inaspettato contrattempo, le famiglie e gli invitati al banchetto attendono impazienti: Claire (l’altrettanto eccellente Charlotte Gainsbourg) che è la sorella maggiore della sposa, ha infatti preparato nei minimi dettagli un sontuoso ricevimento ed è preoccupata per il ritardo che deve registrare, irritata dalla spensierata incoscienza di Justine mai molto attenta e rispettosa degli orari. Gli sposi  comunque alla fine arrivano e la cena ha inizio, attraversata però da screzi e incomprensioni pronte a trasformarsi da un momento all’altro in qualcosa di più pericoloso: il film ricorda volutamente e da vicino in questa sua destrutturazione programmatica piena di veleni e di rivelazioni che ridicolizza e distrugge molte delle convenzioni della civiltà borghese e del suo bon ton, Festen, l’interessante opera prima di Thomas Vinterberg in cui, come ricorderete, una riunione di famiglia sfociava in un processo pubblico dagli esiti drammatici (e anche qui infatti questo è il momento che serve al regista per esplorare le radici del “dissesto” depressivo della sua protagonista).

In Melancholia però il racconto prende poi un’altra strada, e se non disdegna di focalizzarsi anche sul contorno, continua a farlo soprattutto in funzione di una miglior definizione del personaggio di Justine e mettere così in maggiore evidenza una galoppante insofferenza interiore che la rende sempre più ondivaga e inquieta: la donna si aggira quasi smarrita fra le stanze del castello, si lascia scivolare quasi per forza d’inerzia in una vasca da bagno, tiene spesso chiusi gli occhi o fissa con atonico sguardo il soffitto delle stanze, e si abbandona a comportamenti poco ortodossi che lasciano intravedere una crescente sofferenza interiore e un disequilibrio dai quali sembra non possa trovare requie. Attanagliata da un qualcosa ce si definisce in genere come il male di vivere, non riesce infatti più a mentire, né a se stessa né agli altri e durante la serata assume in progressione atteggiamenti sempre più bizzarri che la portano progressivamente ad abdicare al ruolo di “sposa felice” che le è stato assegnato e a cui accennavo prima: si apparta; vaga in solitudine per il parco; si addormenta con il piccolo Leo, figlio della sorella; fa persino sesso, ma non con il marito però, bensì con un appena conosciuto dipendente del suo sgradevole datore di lavoro.

L’ironia cattiva e spesso al vetriolo, una delle modalità per altro fra quelle meno utilizzate dal regista se si esclude la parentesi de Il grande capo, è invece profusa a piene mani in questo primo capitolo, ma c’è davvero molto poco da sorridere, poiché si tratta di un sarcasmo scomodo, feroce,  il più delle volte nero e atrocemente crudele che lascia ulteriori segni di disgregazione: dopo lo strepitoso preludio dunque e prima che l’angoscia e la morte prendano il sopravvento su ogni altra cosa, quasi una pausa tutt’altro che rassicurante in attesa di affrontare di nuovo gli avvenimenti drammatici che la pellicola metterà poi in scena nelle fasi successive. Ci sono gag di maestria assoluta in questo tratto, a cominciare proprio dalla limousine che si incastra nel sentiero, per continuare con le bizze e i contrattempi del wedding planner, passando per il feroce accanimento con cui Claire vuole rispettare, costi quel che costi, il programma già scritto della cerimonia, fino alla dimensione quasi da screwball comedy delle deprecabili rappresaglie verbali dei genitori separati, nella allucinante cornice della galleria di altrettanti  pazzoidi che vi gira intorno che sembra uscire direttamente da una pellicola degli anni ’30, ma con molto più odore di zolfo e cattiveria, perché qui ci si fa del male per davvero.

 

Secondo segmento: “Claire”

 

E’ in questa parte conclusiva comunque che la depressione è colta e rappresentata nel disadattamento distruttivo che la connota come “malattia”, e che sembra progredire e ingigantirsi a vista d’occhio come il pianeta che incombe che finisce per spezzare definitivamente con la sua ingombrante presenza, le ovvietà e la linearità infruttuosa della quotidianità di quella festa, fino a diventare una dolorosa metafora protesa verso il vuoto, il nulla, scaricata violentemente sopra le spalle dello spettatore inerte che si trova costretto suo malgrado ad immergersi a sua volta dentro il dramma e a identificarsi totalmente con la tragedia imminente che rende sempre più smarrite quelle figure che passano davanti ai suoi occhi, arrivando persino ad avvertire e fare sua anche l’ansiogenicità di quel momento orribile che è il punto terminale della vita, e a provare le stesse sensazioni negative dell’afasia che rende più affannoso e concitato il respiro che lo porta metaforicamente ma inesorabilmente a condividere come fosse in trance, l’insopportabile impressione di stare annegando insieme a loro.

Lo spettacolo che sta offrendo Justine è infatti sempre più sconcertante, caratterizzato da una totale, persistente e ormai irreversibile atarassia[9] che l’accompagnerà quasi fino alla soglia della conclusione: dorme tutto il giorno, non riesce ad alzarsi, a camminare da sola, a mettere i piedi nella vasca da bagno, o a nutrirsi correttamente, e quel poco che mangia sembra che per lei abbia il sapore amarognolo della cicuta o quello impastante della cenere, mentre i terribili presagi annunciati dal proemio si ripresentano prepotenti (diventando concrete e minacciose certezze) proprio attraverso un evento astronomico di straordinaria rilevanza come quello con cui sono chiamati a confrontarsi: il passaggio del pianeta Melancholia a distanza ravvicinata dalla terra, e con la quale sembra possa entrare in collisione a dispetto del positivismo delle previsioni.

E’ a questo punto che la cappa dell’oppressione già molto pesante ed opprimente, diventa insopportabile, poiché si percepisce sempre più distintamente dai gesti, dal clima, dal tono, che c’è un qualcosa di mortale che contamina l’aria e i nostri personaggi della storia. Justine è quasi un fantasma che non sembra appartenere più a questo mondo, ma anche Claire e suo marito John (Kiefer  Sutherland) sembrano ormai  posseduti da un qualcosa che potrebbe assomigliare alla lontana a un’epidemia da cinema dell’orrore, che li trasforma e li modifica da una inquadratura all’altra spingendoli alla deriva e fuori da se stessi. Tutti insieme sono comunque chiamati ad illustrare con il loro comportamento diversificato, tre differenti forme di reazione di fronte all’annuncio dell’apocalisse che si identificano in una posizione di diniego e negazione (John), di terrore (Claire) e di imperturbabilità atarassica (Justine) dovuta alla sua apatia depressiva ormai arrivata al punto estremo del non ritorno. Il regista che per sua stessa ammissione ha conosciuto di persona la tragica modalità di sofferenza di questa specifica condizione dissociata, riesce a renderla palese anche allo spettatore proprio facendo sì che la bravissima Kristen Dunst interpreti e traduca al meglio (e lo fa davvero in maniera assolutamente encomiabile) gli effetti devastanti di quella morsa dolorosa che stringe e dilania la psiche prosciugando ogni palpito vitale e della quale proprio nel precedente segmento Von Trier ci ha già mostrato da par suo quelle che sono le evidenti cause che hanno originato quel disturbo così destabilizzante che non arriva mai per caso, esponendo in bella mostra, dettagliata con assoluta precisione e altrettanto talento descrittivo, quella galleria di terrificanti personaggi a cui ho accennato sopra, e in primis proprio la madre (Charlotte Rampling), un essere anaffettivamente spregevole che non ha ritenuto di dover stare vicino alla figlia nemmeno nei momenti più delicati della sua vita (lo dichiara pubblicamente senza sentirsi in colpa) e che durante il banchetto nuziale va ancora oltre sputando frasi talmente rancorose da determinare l’insorgere iniziale dell’umor nero di una Justine sempre più preda dell’insofferenza angosciante, che le chiederà inutilmente e disperatamente in più di un’occasione un aiuto, rifugiandosi persino nella sua stanza in cerca di una parola di conforto, e dalla quale verrà invece bruscamente allontanata con indifferente tracotanza.

Il padre poi è un vanesio ugualmente incapace di comprendere gli s.o.s. lanciati della figlia che solo in apparenza può risultare un tantino più affettuoso, ma in pratica è un “piacione” un po’ grottesco che fa la corte alle ragazze e si infila nei taschini i cucchiai d’argento dell’apparecchiatura, mentre il ricco ed “equilibratissimo” cognato, è talmente insensibile da avere il cattivo gusto di far notare a Justine quanto il ricevimento gli sia costato, e di chiederle in cambio di una così onerosa esposizione finanziaria, di essere felice, o per lo meno di mostrare di esserlo, una frase di una tale sconfinata crudeltà, che detta a un depresso, si trasforma in un abisso brutale di disumanità e di incomprensione dal quale è quasi impossibile risorgere.

Non è certo più positivo nemmeno il laido datore di lavoro che chiede a Justine di applicarsi persino nel giorno delle nozze per trovare lo slogan giusto da utilizzare in una nuova campagna pubblicitaria, né tantomeno lo è il marito che, pur innamorato della donna, non ha purtroppo strumenti adeguati per capirne le complesse problematiche, e per questo si merita di essere lasciato (sarebbe più esatto dire “scaricato”) con poche esitazioni e altrettanti minori rimpianti.

Solo Claire che ha organizzato il ricevimento in modo disinteressato (ma a suo modo altrettanto egoista) appare come un’amorosa sorella che cura ogni dettaglio per rendere il più possibile perfetta la festa, come se questo potesse essere sufficiente per sottrarre Justine all’oscurità che ormai l’ha avvolta, ma anche lei è davvero molto lontana dal capire, e lo dimostra quando, di fronte al fallimento dell’impresa (che è anche quello della sua vita), finisce per rivolgere alla sorella aspre parole, forse perché è strutturalmente incapace di affrontare un dolore prepotente, smodato e incontenibile come quello che crede di percepire, davvero insostenibile per una come lei che è tanto ottusa da credere di aver messo sotto controllo la propria vita, e non si accorge invece di non possedere altro che un marito danaroso, matematico e astrologo di professione, che spara previsioni che non si avverano, in apparenza carismaticamente affascinante e razionale, ma in realtà totalmente  fuori di testa e un po’ nazista nella sua presuntuosa egocentricità, che quando comprende che la fine è davvero certa, decide di suicidarsi in compagnia dei suoi cavalli rinunciando così – e non solo per vigliaccheria - a rimanere accanto alla moglie e al figlio in quel momento estremo del bisogno, orribile conferma che per lui le persone non valgono nulla e ancora meno contano.

A quel punto allora, se intorno nessuno comprende o non vuol capire, non resta che abbandonarsi alla “melancholia” e provare a guidarla contro il mondo intero. Ed è su queste basi di totale instabile precarietà che comincia l’attesa della fine, mentre il tempo che si consuma, sembra  invece dilatarsi all’infinito nel suo trascinarsi impotente e inarrestabile verso l’infausta conclusione e trasforma il tutto in una faticosa e disumana agonia quasi priva di ogni suono. Il silenzio, più angosciante di ogni altra cosa, è spettrale ed ovattato, quasi “devitalizzato”: i rumori della festa sono cessati ormai da tempo, e non c’è più nemmeno il rombo dei motori ad ammorbare l’aria, poiché anche le auto hanno smesso di funzionare ed è solo il blackout elettromagnetico sempre più totale e definitivo, che accompagna l’incedere verso l’inesorabile destino di morte di un mondo dove proprio il genere maschile è stato il primo che se l’è data a gambe, senza però per questo riuscire a salvarsi e scansare la tragedia.

Incapace com’è già stata fatta diventare di rimanere in contatto dialettico con la vita, Justine fra tutti è la sola a non aver terrore della catastrofe imminente, poiché già da troppo tempo considera la morte come una liberazione, e come tale, la avverte come l’unica cosa che potrebbe semmai restituirle qualche residuo barlume di vigore e di vitalità prima della fine. E’ dunque il sapere, l’avere piena coscienza che tutto si sta davvero concludendo, a renderla nuovamente lucida e serena come non era ormai da troppo tempo, ed è allora proprio sul pensiero della morte (e nel diventarne quasi la vestale estrema) che prova a trasferire la sua  energia libidinale, così come era già accaduto in un’altra notte ormai  remota ma in lei di nuovo persistente nel pensiero, quando con il corpo totalmente nudo, coricata sulla fredda terra, dopo aver contemplato con voluttà passionale il pianeta Melancholia ancora lontano, si era lasciata inondare dalla sua luce azzurrina come in un ultimo cupio dissolvi che la stava già consacrando a quel “dio sconosciuto e agognato” di cui si era inconsciamente già fatta ancella.

 

Intorno a lei adesso ad esaltarla, a renderla di nuovo più presente, ci sono solo i segni terribili dell’ecatombe finale espressi dagli animali che il pericolo imminente avvertito ormai come un’assoluta certezza, rende quasi impazziti dal terrore, così che mentre i cavalli scalpitano nelle scuderie, un vigoroso puledro si accascia improvviso al suolo quasi senza fiato, mentre i vermi emergono a frotte dall’umido terreno strisciando e brulicando alla ricerca di un’impossibile via di scampo, e gli uccelli cadono dal cielo tramortiti e inerti come predetto nell’apocalisse.

L’impatto è imminente e Melancholia occupa ormai completamente l’orizzonte: a noi a questo punto rimane solo da accennare a un’ultima presenza prima che tutto si concluda davvero, quella di Leo, il figlio giovanetto di John e Claire, che sembra inserita apposta per poter rappresentare una quarta alternativa nemmeno più remota delle altre già prima esposte, che è poi quella della fede, e non è allora certamente un caso che sia proprio “Justine” (il nome assegnatole dal regista è un significativo “rivelatore intenzionale”) che adesso ha il volto calmo e amaro dell’accettazione, a prenderlo per mano per tranquillizzarlo e cullarlo poi dolcemente. Ed è ancora lei che prova a trasferire ogni momento di quegli ultimi terrificanti istanti di attesa della catastrofe, nella dimensione fatata della fiaba, narrata con un rassicurante tono maternale aperto alla speranza che Claire ormai preda del panico, non riesce più a esprimere (interessante a tal riguardo, il ritornare con la memoria a quelle sequenze anticipate nel prologo in cui, con il bimbo fra le braccia, tenta di correre nella disperata ricerca di un luogo in cui nasconderlo e proteggerlo, mentre i suoi piedi affondano inesorabilmente nella melma fangosa che non la lascia andare).

E’ lei infine che incita il ragazzo a costruire con dei lunghi rami una specie di grotta incantata, spacciata per un rifugio speciale in grado di esercitare il magico potere di salvarli da ogni insidia, mentre Melancholia avanza invece imperturbabile, sempre più grandiosa, possente e meravigliosamente oscena, verso il suo appuntamento con la morte. Dentro la scarna semplicità di quella fragile costruzione fatta con le frasche, loro tre intanto, fra i pochissimi superstiti ancora in vita ma per poco, si stringono uniti per la mano per dare forza a Leo che, permeato dalla limpida innocenza del suo animo fanciullo, è l’unico a restare caparbiamente aggrappato a quel filo di ottimismo che la favola di Justine gli ha sollecitato, una “finzione programmatica” necessaria per creare  “illusione”e alimentare una (im)possibile idea di futuro, quasi come se il regista volesse sottolineare così il sottile ma profondo legame esistente fra melanconia e creatività.

Parlando per metafore, si potrebbe dunque concludere alla fine che nel film, proprio come ha scritto Roy Menarini, la depressione di Justine, esattamente come quella del suo creatore, diventa (…) un pianeta, Melancholia, che quando sembra passato, torna più forte di prima, come purtroppo accade a tante malattie e non lascia più scapo per nessuno.

 

Dopo una nuova, doverosa menzione speciale soprattutto per Kristen Dunst e in seconda istanza anche per Charlotte Gainsbourg, non si  può concludere però senza accennare allo straordinario contributo dell’intero team di interpreti  fra i quali,oltre ai nomi già ricordati prima vanno per lo meno citati e aggiunti anche quelli di John Hurt (Dexter) e Stellan Skarsgärd (Jack).

La strepitosa fotografia piena di suggestioni pittoriche (opera di Manuel Alberto Claro) fa poi il resto, ed è l’indispensabile “veicolo emozionale” che ha consentito al regista di conseguire il positivo risultato dell’insieme.



[1] Mia personale citazione presa in prestito dal titolo di uno dei più famosi romanzi di fantascienza di Robert A. Heinlein



[2] Caspar David Friedrich (1774 – 1840) è stato uno degli esponenti di punta dell’arte romantica della pittura tedesca e uno dei più importanti rappresentanti del “paesaggio simbolico”, che basava la sua pittura su una attenta osservazione della natura considerata come un’opera divina  da lui riprodotta sulla tela lavorando alacremente sugli effetti indotti della luce. Di lui il grande drammaturgo Heinrich Von Kleist, esternando le emozioni che gli aveva prodotto la visione di uno dei suo quadri più famosi  (L’Abazia nel querceto) scrisse così: (…) tutto ciò che avrei dovuto trovare nel quadro, lo trovai fra me e il quadro. (…) Con i suoi due o tre oggetti ricchi di mistero, il dipinto è simile all’Apocalisse (…) e poiché nella sua uniformità sconfinata non ha altro primo piano della cornice, guardandolo si ha l’impressione di avere le palpebre tagliate. (…) (Berliner Abendblätter, 13 ottobre 1810).



[3] Arnold Böchlin (1827 – 1901) autore del famoso dipinto L’isola dei morti concepito in una molteplicità di differenti versioni (almeno cinque) fra il 1880 e il 1886.



[4] Dolore universale.



[5] John Everett Millais (1829 - 1896) Il quadro citato che si trova presso la Tate Gallery di Londra,  è stato ispirato dall’Amleto di Shakespeare e raffigura Ofelia che, caduta nel ruscello in preda alla follia mentre coglie i fiori, continua a cantare mentre sta annegando. La splendida figura della donna distesa a pelo d’acqua con le mani aperte e i fiori del mazzo che vanno disperdendosi nella corrente, occupa la parte centrale del dipinto dentro una cornice che esalta la naturalistica bellezza del ruscello e della vegetazione circostante.



[6] Pieter Bruegel il Vecchio (nato fra il 1525 e il 1530 e morto nel 1569). Il quadro Cacciatori nella neve che fa parte della serie dei Mesi è un dipinto a olio datato 1565 e conservato nel Kunsthistorisches Museum di Vienna.



[7] Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571 – 1610). Il quadro Davide con la testa di Golia è un dipinto a olio realizzato fra il 1609 e il 1610 che si trova esposto presso la Galleria Borghese di Roma.



[8] Kazimir  Severinovi? Malevi? (1878 – 1935) è considerato un pioniere dell’astrattismo geometrico e delle avanguardie pittoriche russe.



[9] Letteralmente: “assenza d’agitazione”. Affine al concetto di apatia, è una condizione esistenziale disturbata caratterizzata da assoluta imperturbabilità di fronte alle passioni, che rende incapaci di misurarsi anche col dolore.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati