Regia di Emanuela Piovano vedi scheda film
Il film della Piovano è finalmente riuscito ad arrivare nelle sale, anche se con una pessima distribuzione e una altrettanto penalizzante risposta del pubblico che è risultata più o meno vicina allo zero (come presenze intendo: nella brevissima apparizione fatta a Firenze al cinema Fiamma, ne avrà infatti totalizzate una settantina scarsa mi si dice, e a conferma di ciò, posso testimoniare che alla proiezione alla quale ho assistito io, nella sala eravamo soltanto in tre).
Sappiamo che il suo cinema non è mai di facilissimo approccio, ma questa volta avevo immaginato con un eccesso di ottimismo, che la particolare tematica di un progetto indubbiamente coraggioso come questo, potesse riuscire a incuriosire una fetta molto più consistente di “intellighenzia” locale, che suscitasse insomma maggiore interesse “culturale”, cosa che invece purtroppo – stando agli esiti - non è stato, credo anche a causa di una inadeguata e quasi “invisibile” promozione pubblicitaria che lo ha reso di fatto “semi-invisibile”.
Dico subito che il risultato è più interessante che convincente: la Piovano è fortemente motivata e si vede. Sa di rischiare grosso e non teme il cimento nonostante la scarsità dei mezzi a disposizione, ma anche – credo di poter aggiungere – una maturazione stilistica non ancora completamente acquisita per un impegno così gravoso che ha affrontato con encomiabile grinta, ma non altrettanta “consapevole” determinazione forse, cosa questa che non le ha consentito di “penetrare “ fino in fondo più che la materia, la complessità del personaggio scelto. Si esce quindi non del tutto soddisfatti dell’esito (o meglio sono io che ho avvertito questa piccola punta di “inappagamento” al termine della proiezione che non posso però assolutamente “generalizzare”, visto che non ho avuto modo di verificare il mio pensiero con nessun’altra persona di mia conoscenza che abbia visionato l’opera), anche se in tutta onestà devo ammettere che una parte dei difetti riscontrati (meglio definirli forze “manchevolezze”?) sono oggettivamente attribuibili più che alla regista, alla deficitaria consistenza dei finanziamenti (vedi le “approssimazioni” fastidiose delle scenografie e dei costumi, più vicine alla “fiction” televisiva che a un cinema di “qualità” sia pure un po’ francescano come questo, ma che avrebbe avuto bisogno per lo meno di una inventiva visiva di ben altra consistenza che la sola qualità della fotografia non riesce a “nobilitare” completamente).
Ma mi sembra di aver avvertito anche qualche titubante tentennamento proprio nella regia, imputabile forse – immagino – a un certo timore reverenziale di fronte alla eccezionale dimensione delle figura che ha inteso portare sullo schermo, e che riguarda per altro anche qualche passaggio di sceneggiatura un po’ troppo didascalico, piccole “pecche” sulle quali si chiude ben volentieri anche un occhio, perché comunque, pur con tutti i limiti messi in evidenza, il senso dell’operazione c’è, viene fuori ed è pregevole, risulta in controtendenza rispetto a quasi tutto ciò che viene prodotto in Italia, e soprattutto lontano da un conformismo troppo cattedratico che avrebbe tolto linfa vitale a una narrazione già di per sé molto perigliosa e irta di ostacoli, ma risolta complessivamente con elegante competenza.
Alla Piovano va infatti riconosciuto il merito di aver riportato in primo piano (cosa non facile né scontata al giorno d’oggi) la complessità del pensiero filosofico della Weil, mettendolo al centro di un dibattito culturale sempre necessario e utilizzando un linguaggio sintattico giustamente indicato dalla Piovano molto prossimo al modello del cinema di qualità europeo, ma che ha tracce (che avrei voluto più accentuate) della grande lezione didattica rosselliniana, nel mettere in scena la vita della filosofa, colta nel momento cruciale della tragedia della guerra (il soggiorno nel 1941della mistica transalpina a Marsiglia, nella fattoria dei Thibon, dove era approdata dopo aver abbandonato Parigi occupata dai tedeschi in attesa di unirsi alla Resistenza francese in Inghilterra e dove invece troverà la morte a soli 34 anni, stroncata dalla tubercolosi e dal suo stesso “martirio” se così si può definire). Proprio in rapporto alla Weil, la regista – tutt’altro che ”celebrativa” - sceglie in ogni caso di portare in evidenza anche i lati più spigolosi e irritanti del suo carattere, come la voglia della donna di diventare ad ogni costo una contadina, pur non essendo assolutamente tagliata per un lavoro così duro, non solo per indole e inclinazione, ma anche a causa delle sue precarie condizioni di salute che, come ho già detto rappresenteranno poi una causa non secondaria nel determinare la sua prematura dipartita, e di raccontarci il suo faticoso percorso di presa di coscienza e conoscenza della condizione di vita più autentica e vera anche di “povertà” e “sacrificio” di quella particolare realtà rurale, alla quale, fedele ai suoi principi, la donna deciderà di aderire totalmente, dividendone anche la miseria, scegliendo per letto un giaciglio di pannocchie, per casa un rudere un po’ malsano e per cibo due patate, tenendosi così volutamente lontana dai prelibati manicaretti preparati per lei dal premuroso Gustave Thibon, innamorato del pensiero della filosofa e della sua persona, perché come scrive Federico Pontiggia, tra i due è amore (e anche di questo si parla nel film), anzi corrispondenza di amorosi opposti – soprattutto da parte di Gustave- che rischia di mandare in frantumi il presente (il matrimonio del fattore) ma si rivelerà fertile per il futuro: quello postumo, della Weil e del suo pensiero (nel 1947, ben 4 anni dopo la sua morte, fu pubblicato L’ombra della grazia, conosciuto anche come La pesantezza e la grazia, una raccolta dei pensieri religiosi della grande filosofa, che proprio Thibon estrasse dai diari scritti dalla stessa Weil durante il soggiorno nella fattoria rurale).
Fra gli elementi di pregio che danno valore al film, c’è indubbiamente la preziosa opera di montaggio del grande Perpignani e la bella fotografia di Raoul Torresi satura di colori e di emozioni, ma soprattutto la bellissima prova interpretativa di Lara Guirao (Simone Weil) che mette a disposizione del personaggio la sofferta espressività del suo volto scavato e del suo esilissimo corpo dai quali riesce a far trasparire comunque tutta la dimensione interiore di una straordinaria forza d’animo. Una interpretazione davvero a tutto tondo la sua, che rivela una duttilità penetrativa di fortissima presa, alla quale ben si conformano anche gli altrettanto positivi esiti di Fabrizio Rizzolo (Gustave Thibon) e Isabella Tabarini (la signora Thibon); fra quelli più discutibili, l’aver caratterizzato solo nella Guirao l’accento francese di pertinenza, cosi importante per la definizione dei personaggi, consentendo invece a tutti gli altri di esprimersi in un inappuntabile (ma inattendibile) italiano, il che toglie non poca credibilità all’insieme.
Buonissimi propositi dunque e qualche discutibile “cedimento” o conformismo di troppo, il che non mi permette di optare per le quattro stelle (indubbiamente troppo generose a mio avviso in questa circostanza). Devo di conseguenza fermarmi alle tre che indicano la sola sufficienza, perché il sistema non consente altre alternative, ma il generoso impegno profuso in un’impresa titanica come questa, meriterebbe qualcosa di più, e le tre stelle e mezzo (se fossero possibili) ci starebbero allora davvero tutte, e non posso quindi che mettere un evidenza la cosa.
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