Regia di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo vedi scheda film
Gli amori nascono così. Iniziale indifferenza, pillole di snobismo, noncuranza. Poi l'esplosione, e l'abbandonarsi ad essa.
Chi scrive questa nota aveva sempre circumnavigato intorno al fenomeno "Boris", senza mai pensare di attraccare. La solita fiction pretenziosa, per di più italiana, pensava. La consueta sceneggiatura infarcita di banalità, gli scarsi rimandi alla attualità, il guardare con supponenza il proprio ombelico senza sforzarsi di allargare un po' l'orizzonte.
Ora chi scrive abbassa il capo ed è costretto ad inondarlo di cenere. Perchè "Boris" (la serie) è un mini-capolavoro di genialità, un congegno perfetto di codici e abiti su misura che non possono non fidelizzare chi la guarda, fino all'acritico innamoramento.
Era naturale che un tale fenomeno (di nicchia ma al contempo, curiosamente, di massa) approdasse al cinema.
E sul grande schermo, dispiace dirlo, qualcosa è andato perso.
Probabilmente il respiro lungo non si addiceva alla struttura episodica della serie, quella che garantiva e rendeva possibile la concentrazione di dialoghi fulminanti, la concatenazione infallibile di piccole verità apodittiche, la vestizione perfetta di personaggi quasi tridimensionali.
Altra premessa non rimandabile è la seguente: sconsigliabile vedere il film in assenza di una full-immersion nella fiction. In tal modo il lungometraggio apparirà un prodotto ibrido, ricco di spunti interessanti, eppure un po' isolato, come un fiore nel deserto bellissimo ma che ha bisogno di acqua, tanta acqua, per crescere ancora più rigoglioso.
E tuttavia, chi abbia visto la serie, amandola senza riserve, è spinto naturalmente al confronto. Ed un'analisi onesta rivelerà che: la satira regge ancora benissimo, gli attori sono sempre in stato di grazia (Pannofino è semplicemente devastante, il personaggio di Renè Ferretti andrebbe inserito nei manuali per la sua profonda complessità psichica ed interiore, che va ben al di là del suo confuso sbraitare, dei suoi meravigliosi scatti d'ira, dei suoi timidi conati di dolcezza), la scrittura conferma l'ottimo talento degli sceneggiatori. Eppure non manca qualche tempo morto evitabile, alcune lungaggini forse eccessive. Cose che, in un film "normale", passerebbero inosservate. Ma qui ci troviamo di fronte al fratello maggiore di "Boris", stessa famiglia, stesso sangue, stessi nobili natali.
Detto questo: immergetevi nelle miserie del cinema italiano. Farete la conoscenza di travet tristissimi e pretenziosi, di giochini di potere talmente scoperti da apparire ingenui, di attori cani e/o cagne, di attrici iperlodate per quanto afone e nevrotiche (Marilita Loy, meravigliosa idea di sceneggiatura: vi ricorda qualcosa/qualcuno?).
Alla fine, la ammissione di una sconfitta lascia feriti ma non inermi. Ci può essere dignità nella merda e sommessa gioia nelle catatoniche risate proprie ed altrui. In questo "Boris. Il film" coglie nel segno: non è possibile, forse, un altro cinema. Il cinema è di chi vuole che sia com'è. Alla faccia di tutti i Ferretti del malaticcio microcosmo italiano: gente che sogna e s'incazza, poi è costretta ad abbassare il capo, conservando ogni valore per se stessa. Questa, forse, è la salvezza.
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