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Boris. Il film

Regia di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo vedi scheda film

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La recensione su Boris. Il film

di LorCio
8 stelle

Boris è un fenomeno per molte ragioni. Quando Fox cominciò a trasmetterlo anni fa, ce lo filammo in pochi, ma subito capimmo la potenza dissacratoria e liberatoria di quella anomala serie italiana. Col tempo ci siamo affezionati al regista con un grande futuro dietro alle spalle René Ferretti, al candido stagista Alessandro, alla dura assistente alla regia Arianna e a tutti gli altri, stupendi, personaggi scritti dal trio Vendruscolo, Ciarrapico e Torre. Di cosa parla? Di chi naviga nella merde delle fiction televisive, tra frustrazioni e disperazioni quotidiane, con l’obiettivo di “portare a casa” una puntata e di piazzare protetti di chicchessia in qualsivoglia ruolo, sia davanti che dietro la macchina da presa. Il passaggio di Boris al cinema è tutt’altro che un trauma. Cioè, per noi devoti alla serie è un passaggio quasi naturale, indolore e felice. Per chi non lo conosce, forse, potrebbe anche esserlo. E forse proprio con gli occhi di chi non pratica il culto di Boris dovremmo vedere il film. Perché noi che l’abbiamo visto per tre stagioni capiamo tutti i riferimenti ficcati (la figlia di Mazinga, la cagna maledetta, Karin “le cosce” che vede solo allusioni sessuali, la dipendenza alla cocaina di Duccio, i magheggi di Sergio, il dottor Cane e via dicendo), ma chi non l’ha visto si ritrova di fronte a qualcosa di sfacciatamente nuovo.

 

Sembrerà assurdo, ma Boris rischia di diventare il miglior film italiano della stagione assieme al lontanissimo Noi credevamo. E soprattutto la commedia più necessaria in questa annata in cui siamo terribilmente andati in overdose di commedie. Che cos’è Boris? Parte con le riprese dell’ennesima fiction de merda, Il giovane Ratzinger interpretato dall’odioso, eccessivo, patetico Stanis La Rochelle (non so chi sia più insopportabile tra Pietro Sermonti e Stanis): René (l’immenso Francesco Pannofino) litiga con il dirigente Lopez (l’eccellente Antonio Catania) ed abbandona il set. Cade in depressione assieme a tutto la troupe finita in mezzo ad una strada finché Sergio (il sottovalutato Alberto Di Stasio) gli propone una trasposizione filmica de La Casta. E da qui parte di tutto: la parodia televisiva lascia il posto alla satira cinematografica, in cui pressoché nessuno (con feroce sarcasmo ma senza la benché minima arroganza) viene risparmiato. È un film probabilmente rivolto a chi conosce bene il cinema: il pubblico medio non conosce il citato Calopresti, non capisce che i tre sceneggiatori che sfruttano un team di giovani scrittori mettono in scena una leggenda che vuole i sacri totem del cinema d’autore Rulli e Petraglia capi di un équipe che scrive per loro, non sa che il direttore della fotografia del film “serio” di René ha gli stessi occhiali dell’omologo reale Fabio Cianchetti, non conosce il sottobosco produttivo romano impersonato da Sergio, non comprende fino in fondo il declassamento di Lopez dalla tv al cinema (in cui tutti puzzano e deve indossare pullover scuri e occhiali alla Gramsci), ignora come la pensano i vertici di Rai Cinema. Forse capisce solo la parodia di Margherita Buy (la Marilita Loy dalla voce sussurrata e le nevrosi facili), i riferimenti a Matteo Garrone e Gomorra, le prese in giro dei cinepanettoni (Natale al Polo Nord), l’arroganza dei kolossal americani girati in Italia. Eppure funziona. Funziona a meraviglia, con una fluidità, una scorrevolezza, un piacere così rari nel cinema italiano, una miniera di idee, citazioni, spunti che inondano la scena provocando un divertimento autentico e spudorato. Il film è perfetto. È perfetto perché è ciò che si propone ma con qualcosa di più, è in continuità con la serie (e quindi non delude i fans) ma vola se vogliamo ancora più in alto (e allora sorprende i neofiti), riesce ad essere involontariamente il più sincero, realistico e scatenato ritratto sulla nostra cinematografia, se vogliamo ancora più cialtrona della tv perché si deve ragionare con meno soldi e più esigenze artistiche. Affettuosamente cinico, con stoccate pure a sinistra (“Walter abbiamo un cinepanettone!” che ricorda tanto l’ormai mitico grido di Fassino “abbiamo una banca!”, gli sceneggiatori iscritti al Pd) e non solo a destra (il quinto dirigente più importante di Medusa è una scimmia), è un gran film con un cast da paura (Ninni Bruschetta e Paolo Calabresi soprattutto, ma da incorniciare anche i cammei di Massimo Popolizio come divo dei cinepanettoni in nome della “grande narrativa popolare”, Giorgio Tirabassi come teorico del cinepanettone e la simbolica apparizione del dottor Cane di Arnaldo Ninchi) che bisogna godersi in santa pace. Un film bellissimo.

Cosa cambierei

Voto: 8.

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