Regia di Benedek Fliegauf vedi scheda film
Rebecca (Eva Green) e Tommy (Matt Smith) sono due dodicenni molto intimi: amici che condividono il fugace gesto di un frutto mangiato sotto il temporale, i giochi sul bagnasciuga, la spartizione del letto a casa del ragazzo. Lei vive col nonno e, alle novelle della sera, preferisce fantasticare da sola mentre si accarezza il grembo (il “womb” del titolo), come fosse già consapevole di un senso della maternità tutto speciale. Poi il destino incombe: Rebecca sta per partire per Tokyo, dove c’è la madre ad attenderla, e quindi dovrà dire addio al suo amore infantile…
Dramma acquitrinoso diretto dall’ungherese Benedek Fliegauf, il film sfiora in modo personale ed epidermico il tema scottante della clonazione. Provvisto di dialoghi che hanno la pretesa di essere risolutivi, l’accadimento si fa carico di risvolti surreali che forse non gli si addicono fino in fondo. L’aria di ineluttabilità in stile “insieme per sempre” che circonda i corteggiamenti fra Tommy e Rebecca è troppo solitaria ed esclusiva, dato che allo spettatore non viene dato il tempo di entrare in empatia con i personaggi. La “cacciata” di quasi tutti gli altri soggetti coi qual interagiscono (che fine ha fatto l’autista dell’incidente? Perché i protagonisti muovono catatonici infischiandosene della presenza altrui?) provoca irritazione e noia.
E poi, come mai Eva Green ha sempre la solita espressione indolente? Quale motivazione ha spinto il regista a tenere troppo fuori scena la bravissima Lesley Manville (nel film madre di Thomas) già vista in “Another Year” di Mike Leigh? La Green ha il gravoso compito di ricoprire un ruolo difficile e non riesce a simulare con lo sguardo quelle verità nascoste che sarebbero dovute rimanere tali per spettatori e attori, nonché quei sentimenti equivoci che la parte avrebbe richiesto, magari con addosso un po’ di trucco in più.
Tutto ciò contribuisce solo in parte a rendere l’idea di un rapporto morboso ai limiti della malattia, pervaso com’è da troppi silenzi che non parlano né affascinano nonostante le musiche leggiadre di Max Richter. Oltremodo oscuro rimane anche il soggiorno presso il “Dipartimento di replicazione genetica”, tanto che la messa in scena di questa storia fantastica si fa moralmente avventata (clonare è generalmente riconosciuto o è un’azione da ignobili fuggiaschi?).
L’ambiente, bellissimo, si distingue spesso grazie a inquadrature che insistono sulle onde increspate, i bagni fuori e dentro il mare, sulla natura incontaminata di questa piccola località costiera che nella realtà si trova a nord della Germania. Sarebbe stato interessante se la narrazione avesse insistito sulla difesa di quei piccoli animali (quali la lumaca) che affiorano tra una corsa e l’altra sul bagnasciuga, sull’allevamento di scarafaggi per rimarcare qualcosa di più sull’istinto di (auto)conservazione, oppure sui dettagli dell’intervento chirurgico: ciò avrebbe conferito quell’impatto emotivo purulento e decomposto che avrebbe richiamato certo cinema di Cronenberg (“Inseparabili”) e Greenaway (“Lo zoo di Venere”).
Tuttavia “Womb” mantiene una buona dose di modernità: mostra l’indifferenza di fronte alle emozioni negative, la paura di affrontare il dolore, l’ossessione psicosessuale che si mescola al finto superamento del rimosso (in questo caso la morte di uno dei personaggi). La realtà fa capolino solo quando urge l’esasperazione delle questioni discriminatorie, e questo è un vero peccato disfunzionale: in tal modo gli attori sono come dinosauri senza viso né impronte digitali, che testano l’involuzione della specie “ai confini del mondo”. La Biologia e la Matematica sono materie scientifiche troppo serie per essere lasciate in balia delle intolleranze osmotiche causate dall’aria salmastra.
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