Regia di Phyllida Lloyd vedi scheda film
Partiamo dalla locandina, che nell’impero dei media è fondamentale. E teniamo a mente una sequenza specifica del film, quella in cui la signora Thatcher ascolta i consigli di due esperti di comunicazione (deve migliorare i suoi modi apparenti per conquistare la leadership del Partito Conservatore). Nel manifesto c’è l’immagine di Margaret Thatcher costruita secondo le direttive di quei due esperti: madre di famiglia ma anche capitano d’industria, altera ma anche seduttiva, anomala ma anche carismatica.
E c’è un solo volto, che occupa il manifesto e che inonda anche la pellicola: è il volto di Meryl Streep, vera ragione d’esistere dell’intero film, molto più che probabilmente un veicolo per ottenere finalmente il tanto sospirato Oscar (e se non lo rivince ora, a distanza di trent’anni dal secondo, non lo vince più). Senza molti giri di parole, Meryl è spettacolare (e non è una novità) perché reinventa con assoluta genialità una, nel bene e nel male, icona del novecento (le era capitato raramente di interpretare personaggi realmente esistiti: a mia memoria, Karen Blixen ne La mia Africa, la Karen di Silkwood e Julia Child di Julia & Julia) o troppo amata o troppo odiata, impossibile da raccontare senza un briciolo di soggettività.
Le mancanze di una sceneggiatura troppo timida e didascalica nel narrare l’ascesa politica della signora, focalizzata soprattutto sull’affermazione di una donna in un mondo di uomini (anche se, onestamente, il film sembra presentare la protagonista, al di la dell’uguaglianza e della parità tra i sessi ovviamente considerata, come un maschio mancato) e che cita quasi per dovere di cronaca l’aspetto più duro degli undici anni di governo (in particolar modo i primi tempi, con la recessione, la crisi economica, i rapporti con l’IRA e i tagli alla spesa), interessandosi più che altro a far capire come le scelte più difficili siano derivate dal piglio tosto della donna in opposizione alla codardia vigliacca dei colleghi uomini, sono colmate da una specie di pretesa che vorrebbe Margaret Thatcher espressione di un radicale femminismo di destra, individualista ed avido.
Che poi forse è anche vero, ma non si può esattamente ritenere l’età della Thatcher come se fosse stata dominata da un fervore femminista, considerando anche che è lei il primo ministro delle lacrime e del sangue (con il concetto di base che “domani ci ringrazieranno”) e della guerra delle isole Falkland, degli scontri coi sindacati e dell’euroscetticismo: voglio dire, qual è il reale intento di una sceneggiatura che elenca i fatti in modo asettico e anche scontato, ma che allo stesso tempo mette il piede in due scarpe, nella destra con la celebrazione di una donna che ha cambiato il volto della Storia e nella sinistra con la rappresentazione di una solitudine politica dannata da troppa ambizione?
Il reale intento sta nella dimensione onirica di questa atipica biografia a cui la spericolata Phyllida Lloyd (già regista di Mamma Mia!) si approccia con forse troppa audacia: l’ottantenne Thatcher, affetta da demenza senile e tutto sommato annoiata, colloquia con il marito morto da otto anni (un grandioso Jim Broadbent), come se la morte non se lo fosse portato via. C’è chi ha gridato allo scandalo, o peggio ancora al ridicolo. Ma, salvo qualche eccesso fantastico specie nel finale, è la parte incredibilmente più delicata e misurata di un film a volte kitsch e non sempre sobrio, perché racconta con una tenerezza mai melensa un amore senile e disperato, contrappasso di una vita dedicata alla realizzazione di qualche cosa di grande (Margaret si lamenta che oggi nessuno vuole realizzare qualcosa ma soltanto diventare qualcuno).
Che sia allora questa la lettura reale di The Iron Lady? Non penso, ma sono sicuro del fatto che l’intenzione più profonda di Abi Morgan fosse proprio intimista e ben poco, per così dire, storica. Ambiguo ed irrisolto finché si vuole, agiografico ma anche no, è comunque un film che si lascia vedere anche senza porsi troppe domande, che suggerisce almeno allo spettatore meno informato ad indagare su chi veramente sia stata il primo ministro Thatcher, al di là del facile coinvolgimento emotivo dell’anzianità. Resta in ogni caso un saggio di bravura della Streep, capace di recitare anche sotto un trucco pesante che non le impedisce l’espressività tipica della sua recitazione sensibile e raffinata, mai eccessiva, mai caricaturale, mai sorniona: e tutto il resto, poi , non conta più. Io non credo in Dio, io credo in Meryl Streep.
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