Regia di Mario Bava vedi scheda film
Che regista Mario Bava!
Nel suo primo lungometraggio (La maschera del demonio), tratto da un racconto di Gogol, Mario Bava aveva usato un approccio classico, tra il fantastico e il soprannaturale, da anni '20-'30, per accostarsi alla tematica della morte e a quanto c'è oltre essa. La principessa/strega Asa e il suo vecchio alleato Javutic erano esseri vampireschi risputati fuori dalle tombe macerando dentro di sé un antico desiderio di vendetta. Erano la concretizzazione reale (molto reale!) e palpabile di una paura dell'inconscio, o forse di un senso di colpa che risaliva a molte generazioni prima.
Nel 1963 Bava gira due film a tema simile a quello del suo primo lungometraggio, ma servendosi di argomenti differenti, più moderni. Ne I tre volti della paura, film a episodi, il più interessante dei tre mini-racconti è il terzo, La goccia d'acqua: il fantasma di una medium morta sembra perseguitare un'infermiera, tuttavia risulta quasi impossibile decifrare se il fantasma fosse vero o solo una proiezione mentale del senso di colpa dell'infermiera. Magia o psicologia? Bava lascia che a spremersi il cervello nel dubbio sia lo spettatore.
E quindi veniamo a La frusta e il corpo. Le paranoie della protagonista diventano qui inoppugnabili in conclusione dell'opera. Nevenka crede di agire per conto dello spirito tornato in vita del barone Kurt, da lei stessa assassinato, quando invece a muoverla è solamente la malattia mentale, il suo vizio che lei stessa ha evirato ammazzando l'oggetto delle sue pulsioni. Nevenka ritiene così di dover punire coloro che avevano coperto di disonore il suo amante. Un horror psicologico, malgrado la confezione gotica dell'opera. Qualche indizio sulla modernità del suo film, per la verità Bava lo regala a livello di tecnica: gli zoom di macchina improvvisi alla Sergio Leone, si può dire che li ha introdotti Bava; le luci e i colori sgargianti e innaturali, in seguito marchio di fabbrica di Dario Argento, ma in principio erano la firma autografa di Mario Bava.
Soffocante è la percezione di decadenza che pervade il film dall'inizio alla fine: l'occhio della macchina da presa di Bava si aggira per le stanze ricolme di rovina e di morte di questo castello costruito sulla riva di un mare sferzato da incessanti raffiche di vento. Un posto di tenebra, isolato, divorato dal male, dalla malattia morale dell'uomo, dalla solitudine, dove la morte e la vita sono concetti egualmente privi di significato, egualmente spenti. La vera pazzia di Nevenka non consiste nella sua follia omicida in se stessa, forse, ma nella convinzione che tra morte e vita sussistano diversità tali da giustificare la sua fame di massacro.
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