Regia di Cèline Sciamma vedi scheda film
I traslochi, son sinonimo di cambiamento. Turbamento, abitare in altre: situazioni, condizioni, appartenenze. Dimorare. Senza avere la certezza di poter trovar pace, ne la pelle che si abita.
A pochi giorni dall’uscita in sala del bel film di Almodovar, un altro film, meraviglioso, Tomboy della regista francese, di origini italiane, Céline Sciamma.
Tomboy tradotto é “maschiaccio”. Come lo è per l’eccezionale Laure/Michael, che preferisce i jeans e t-shirt ai pur eleganti gonnellini, non ama truccarsi, e non solo per l’età, che anzi le avrebbe suggerito l’idea dei primi rossetti, smalti, ecc. No, Laure/Michael non vuole essere quello che non crede di essere. Lei vuole essere quello che avverte nella e sotto la pelle di esistere: uomo. Anzi, ragazzino che giocando al pallone si possa sbucciare le ginocchia, possa levarsi la maglietta, scalpitare, sputare in terra, come solitamente fanno i maschi.
Il secondo lungometraggio di Cécile Sciamma, che segue l’altro bellissimo già nel titolo, La nascita delle piovre (2007) che già raccontava la scoperta di sé di uomini/donne sfuggenti, nuovamente fonde e confonde, spiazza lo sguardo, specie tutte le volte che il tentativo di addossare lo sguardo/macchina sul corpo di lei/lui ha la potenziale capacità di imbrigliare ogni genere, categoria, identità. Semplicemente uomo/donna. Persona. Costretta, pur tuttavia, a non poter mistificare a lungo quello che non è, perché per la società, Laure è quello che lo Stato, cosiddetto civile, ha deciso che deve essere. In quanto parte di una comunità quelle/quelli come lei/lui incarnano il mistero di un'identità diversa. E’ per questo che Laure vive la differenza senza mai verbalizzarla, sebbene essa abbia un nome, Michael. Costretta al travestimento, anche Laure farà i conti con la pelle che abiterà. E noi, dall’altra parte, entreremo in ogni luogo da lei/lui abitato, senza mai levare lo sguardo altrove (i lunghissimi piani-sequenze si accompagnano ad una fotografia che ha quasi il colore e l’odore della carne).
Il film della Sciamma si può definire senza ombra di dubbio un’opera trans-genere, in senso letterale, perché i generi li attraversa tutti: incanta, incolla lo spettatore allo schermo. Emoziona, senza esagerazione. Vincitore del Teddy Award al Festival del Cinema di Berlino, continua ad ottenere ampio plauso da parte di pubblico e critica, in Italia Premio del Pubblico al Torino Film Festival. Bello pensarlo e rivederlo alla luce di quello che Francois Truffaut raccontò ne Il ragazzo selvaggio (1969) e Siddiq Barmak nel più recente Osama (2003). La trasmigrazione e i continui traslochi. Continui e mai troppi per smettere di rifletterci su.
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