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Tomboy

Regia di Cèline Sciamma vedi scheda film

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La recensione su Tomboy

di OGM
8 stelle

Fintanto che si è piccoli, l’identità di genere è una semplice scelta di gioco. Si può preferire la danza oppure il calcio, si può starsene calmi in disparte oppure darsele di santa ragione, fare il tifo da bordo campo oppure partecipare attivamente alla sfida: si tratta, banalmente, di optare per il ruolo che ci è più congeniale quando stiamo in compagnia per divertirci e scherzare insieme.  Laure è una bambina, ma, nel luogo in cui la sua famiglia si è appena trasferita, tutti credono che sia un maschio di nome Michael. Ai suoi coetanei si presenta in quella veste, forte di un corpo prepuberale, esile ed atletico,  infilato in magliette e calzoncini dal taglio squadrato. I suoi atteggiamenti nel parlare, nel camminare, nel gesticolare sono quelli tipici del sesso opposto,  e inizialmente non si sa se per effetto di una recita attentamente preparata, oppure per un fatto spontaneo ed assolutamente naturale. I suoi genitori sono del tutto indifferenti a quella sua totale assenza di femminilità, ma sono anche ignari della finzione che Laure ha messo in piedi. Dimostrano di accettare senza alcun problema l’insolito modo di essere della figlia: solo quando la madre scoprirà la menzogna a cui esso ha dato origine, si sentirà in dovere di intervenire, costringendo la figlia a riparare all’increscioso errore.  Quello che oppone Laure al resto del mondo è il conflitto tra due verità: quella personale ed  interiore  che la ragazzina racchiude nell’animo, e che rispecchia il modo in cui vede se stessa e percepisce il proprio corpo, e quella ufficiale ed esteriore, attestata dai documenti anagrafici e dalle classificazioni morfologiche. Il suo travestimento è, nelle sue intenzioni, l’atto col quale l’apparenza si adegua alla realtà: Laure vuole sembrare agli altri ciò che sente di essere, ristabilendo la giusta coerenza tra forma e sostanza. Un progetto che potrebbe anche funzionare, non fosse per quella fisicità immodificabile in cui è nata, e che la incasella, in via definitiva, in una precisa categoria biologica. L’assegnazione, a ben vedere, sembra ridursi ad una convenzione anagrafica (i dati riportati nella scheda di iscrizione alla scuola), visto che i ragazzi riconoscono Laure come uno di loro, mentre Lisa se ne innamora e non si accorge di nulla nemmeno quando, a sorpresa, la bacia sulla bocca. In quel limbo d’innocenza, in cui la fisiologia riproduttiva non ha ancora tracciato le sue profonde linee di demarcazione, le inclinazioni sono libere di spaziare nel territorio vergine dell’amore primigenio, fatto di passione pura e di mistero assoluto. In quel paradiso privo di regole, nulla è codificato, non ci sono confini da rispettare, e per questo motivo il pensiero, con le sue fantasie,  riesce così facilmente a tradursi in una vicenda reale. Tutti partecipano all’incanto con la mente sgombra da pregiudizi, si abbandonano alla magia della favola, anche quando – come Jeanne, la sorellina di Laure – sanno che lì sotto si nasconde una bugia. Volerci credere è una forza di per sé invincibile, che viene sconfitta solo a posteriori, dall’obbligo di doversi allineare agli schemi che disciplinano ed organizzano la vita sociale. Alla  fine del film, che si chiude sulla forzata confessione di Laure, viene da chiedersi cosa di lei sopravviverà, in un contesto pubblico che, da quel momento in poi, la definirà, istante per istante, come una bambina, una ragazza, una donna, con tutte le relative implicazioni logiche ed aspettative morali. Céline Sciamma preferisce lasciare in sospeso quella domanda cruciale, che si impenna proprio sul ciglio del dramma, sul punto di non ritorno in cui  a Laure viene per sempre tolto di mano quel giocattolo, altamente educativo,  con cui stava imparando a prendere coscienza di se stessa. La sperimentazione, che  a quell’età è spesso una rischiosa avventura, si interrompe nel momento in cui Laure, con l’amore di Lisa,  aveva riscosso il suo primo importante successo.  Le circostanze le negano la possibilità di andare oltre, in quel suo eccitante percorso di scoperta: e forse la costringeranno ad imboccare la strada del sotterfugio, che, quando riguarda la vita affettiva, è sempre una sorta di alienazione pilotata. Tomboy non ci parla del dopo, anche se ce lo fa drammaticamente intuire; anzi, si può dire che, in fondo, non ci parli affatto,  perché il suo racconto è un semplice fluire di immagini, in cui le cose accadono secondo le idee che le hanno ispirate, senza discorsi preliminari. È, insomma, la storia di ciò che avviene prima che il sogno fuori dal comune,  poeticamente inseguito con l’immaginazione,  diventi un problema di cui discutere, un’anomalia da giustificare, e un diritto da rivendicare.

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