Regia di Lee Tamahori vedi scheda film
Latif Yahia è stato il sosia ufficiale di Uday Hussein, lo spietato primogenito del rais. Almeno così lui stesso ci racconta nei suoi libri: in I Was Saddam’s Son, uscito nel 1997, e in quello che porta lo stesso titolo del film, dato alle stampe nel 2003, subito dopo l’uccisione di Uday da parte delle forze di occupazione americane. Il protagonista è un uomo costretto a dimenticare la propria identità per assumere, in pubblico e in privato, quella di un folle assassino, torturatore, stupratore. Il suo dramma è specchiarsi, quotidianamente, in un male atroce e rivoltante, a cui deve suo malgrado fare da spalla. Ciononostante Latif si limita, in questa situazione, ad essere semplicemente un bravo attore. Lo imita alla perfezione nel modo di parlare e di atteggiarsi quando è inviato, al suo posto, a tenere un discorso; con lui condivide, di nascosto, l’amante Sarrab. Però resta immune dai vizi e dalla malvagità del suo terribile doppio, come un’immagine riflessa su una superficie pulita ed incorruttibile. Un angelo che rimane tale, anche quando è il gemello del diavolo e, per quanto viva nella sua casa e dorma nel suo letto, riesce a non farsi contaminare dalla sua sinistra pazzia. Si direbbe un eroico bambolotto, che non conosce cedimenti morali o psicologici, dato che anche il suo tentato suicidio è soltanto un coraggioso atto di sfida. In questo manichino di plastica, permeabile all’amore ma totalmente refrattario al dolore e alla rabbia, è difficile credere, anche se si tratta di un essere umano avvezzo all’orrore, per aver combattuto nella guerra Iran-Iraq. Non basta, infatti, l’esperienza sul campo di battaglia per tramutare un ufficiale trentenne in una indistruttibile corazza di integrità e freddezza, che trattiene impeccabilmente il sentimento fino al momento di passare all’azione. Quella copia è frutto di un disegno accuratamente studiato, che l’originale ha concepito fin nei minimi dettagli e poi ha continuato a seguire da vicino, tenendo scrupolosamente sotto controllo la sua messa in pratica. È inverosimile, però, che l’oggetto di questa macchinazione risponda con altrettanto impassibile rigore. Il rapporto tra vittima e carnefice diventa incredibilmente simmetrico, trasformandosi in una partita disputata ad armi pari. Un gioco puramente tattico, che utilizza in maniera attenta la finzione e il sotterfugio. L’intelligenza riesce a sfuggire alle maglie del potere, e nel momento in cui, con l’entrata in scena della violenza, ciò non è più possibile, la vendetta è compiuta senza batter ciglio. Lo sviluppo della vicenda affascina, ma solo perché, sul piano strategico, è uno splendido giro di valzer, dal ritmo serrato e dall’evoluzione avvincente. È un racconto fantastico collocato in una dimensione ideale, nella quale la fine di una dittatura può davvero essere innescata dalla fermezza di un solo individuo, che, per quanto risulti prigioniero e formalmente complice del regime, dà l’esempio e trasmette la forza. Latif Yahia ama ritrarsi così, immancabilmente a testa alta, servitore del nemico senza sporcarsi le mani, traditore solo dove lo impone la giustizia. Se la storia è davvero inventata, applaudiamo al modo in cui, pur nella meccanica veste di un action movie, riesce a farci sognare un mondo migliore. Non è mai troppo tardi per lasciarsi incantare dalla favola del fratello buono e del fratello cattivo, e fremere quando il primo combatte, ed esultare quando il secondo viene sconfitto. D’altronde la caotica ordinarietà dei reality ha spostato indietro le lancette delle nostre utopie, riportandole al fantastico regno dei principi, crudeli o santi che siano.
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