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Suicide Room

Regia di Jan Komasa vedi scheda film

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La recensione su Suicide Room

di OGM
8 stelle

Suicide Room è un nickname. Ed è il nome  di un gioco di ruolo. Ed è anche la patinata copertura virtuale dietro cui si nasconde la micidiale chimica dell’assuefazione, dei farmaci antidepressivi, dell’euforia artificiale che prelude ad una fine atroce. Drogarsi di finzione e di immagini significa riprodurre all’infinito una realtà adulterata, che si propaga attraverso la rete sotto forma di un filmato girato per scherzo, ma poi si mette a rimbalzare tra le pareti della nostra mente, diventando un’ossessione che ci isola dal mondo. Per Dominik, un adolescente polacco di ottima famiglia, giunto ormai alle soglie dell’esame di maturità, l’incubo alienante inizia con un gioco tra ragazzi: un finto bacio omosessuale scambiato con un suo compagno di scuola durante una serata danzante, ripreso col telefonino e caricato su un social network. È il quel momento che il ragazzo comincia ad essere quello che la comunità virtuale crede che egli sia: un gay innamorato del suo amico Alex. Contemporaneamente, Dominik inizia ad allontanarsi dalla propria vita, diventando così facile preda di una misteriosa donna che, col nome di sala_samobójców (stanza del suicidio), lo contatta in chat, e lo trascina in un luogo virtuale, frequentato da persone che aspirano a darsi la morte. Il suo avatar elettronico, che si muove in un videogame, relazionandosi esclusivamente con una figura femminile dai lunghi capelli rosa, finisce per sostituirsi alla sua vera persona, che non esce più dalla propria camera, restando costantemente attaccata a quell’universo tanto colorato e fantastico, quanto inesistente. La sua follia è fatta dello sviscerato amore per un mistero che non cessa di stimolarlo con le sue forme spettacolari, dinamiche e  plasmabili a piacere. Il principale oggetto della sua venerazione è però lei, quell’icona vivente, eppure surreale, trasmessa dalla webcam, con quell’ovale di plexiglas sul volto, che sembra un ammiccante compromesso tra una maschera per l’ossigeno e la celata di uno scafandro da astronauta.  Il volto di quella sconosciuta, inquadrato accanto al suo in un rettangolo del display, è una sorta di specchio alternativo, in cui Dominik guarda ciò che si trova al di là della propria apparenza, e al di sotto della superficie della sua normalità programmata: quel viso anomalo, che emerge dal nulla per enunciare propositi di morte, è come un fantasma che diventa visibile solo  quando si spengono le luci e i rumori del giorno. In quell'istante Dominik smette di essere il figlio della top manager e del braccio destro del ministro, che è accompagnato a scuola dall’autista e ha molto tempo per annoiarsi e molti motivi per sentirsi incompreso. Il giovane finisce per incapsularsi nella propria diversità, tuffandosi in quell’etere cosmico che lo ha rimodellato a suo uso e consumo, e che, per questo, affrancandolo dallo scomodo vincolo della sua identità ufficiale, gli si offre come uno sterminato oceano di libertà. L’unico punto di riferimento, l’unica isola nella corrente è quella strana  ragazza, che lo accompagna attraverso lo psichedelico paesaggio cibernetico, i cui pixel sono come polvere di stelle e si materializzano in allucinazioni sentimentali. La fluidità delle animazioni computerizzate ammorbidisce l’aspro profilo dell’esistenza quotidiana, in cui la vanità e la volgarità prendono troppo spesso il sopravvento.  I sogni di Dominik assumono la veste carezzevole del volo che non conosce la pesantezza ed il rigore delle leggi fisiche; ed egli così si spoglia dei soliti abiti per indossare i panni digitali del personaggio di un manga. Per suo padre e sua madre, che lo lasciano spesso da solo, per dedicarsi alle proprie carriere, quella condizione  è una malattia da curare con una pillola, o con un breve ricovero presso una clinica privata. O forse è  una  dipendenza che si può superare semplicemente staccando la spina del modem: è un’entità rivale, rispetto al loro presunto amore, alla quale occorre strappare il figlio con la forza della medicina o dell’autorità genitoriale. Andrzej e Beata non si rendono conto che quel cavo di connessione è diventato, molto più che un cordone ombelicale, un canale attraverso cui Dominik trasferisce la propria linfa vitale al di là dello schermo del suo portatile, assoggettando il proprio essere alle regole di una recita a soggetto, in cui agisce da schiavo, privo di volontà, ma pieno di un’assoluta e viscerale passione. La favola che, per gli animi romantici, è un regno racchiuso nel pensiero, e quindi costituito di circuiti cerebrali, per Dominik vive di impulsi luminosi ed elettronici, ossia di sostanze che, per quanto impalpabili, sanno dare, alla  magia, la forma concreta di una percezione sensoriale, che prolunga ed approfondisce quella dell’ambiente circostante. Dominik è un navigatore del cosmo, che attraversa, confondendone i confini, i vari livelli della verità: quella esterna e condivisa, e quella interna, esclusivamente personale, che, come la galassia in espansione di internet, continua ad aprirsi all’infinito, anche quando la vita concreta ed organica della materia si sta inesorabilmente spegnendo. Suicide Room è una storia imperfetta, che inciampa nelle proprie contraddizioni, e si incaglia, a tratti, nelle discontinuità tipiche del cyberspazio, i cui si procede a suon di clic,  tra motori di ricerca e link ipertestuali: non tutto è logicamente coerente, e non tutto è funzionale allo sviluppo del solitario dramma del protagonista. Alcuni fili si perdono per strada, però il quadro generale è fatalmente ebbro, barcollante, capace di défaillance  estetiche come di impennate di gioia visiva. E questa deriva, tanto imperscrutabile quanto acerba, ci convince in pieno di come lo strumento telematico possa fare da vertiginoso acceleratore all’immaginazione, trasformando ogni piccolo seducente spunto di illusione nella scintilla di un inarrestabile delirio.

 

Questo film è il primo lungometraggio per il grande schermo del giovane regista polacco Jan Komasa, classe 1981.

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