Regia di Michael R. Roskam vedi scheda film
Ormoni e carne. Muscoli gonfiati che annebbiano la vista e opprimono il cuore. Non è una storia di doping e fisici palestrati, ma di uomini e bestiame. Di cinica avidità che riduce tutto a pura materia, facendo dell’istinto la fonte di energia da cui trarre la sostanza vitale, e la risorsa primaria da contendersi in feroci lotte all’ultimo sangue. Il testosterone fa crescere i bovini, il conto in banca e la rabbia in corpo. E non c’è null’altro, all’orizzonte, oltre a ciò che si può possedere e controllare manipolando denaro, composti chimici e liquidi organici. Questo film è un noir immerso nelle nebbie della campagna fiamminga, che respira l’odore pregnante delle stalle e gioca rozzamente con la virilità, l’intrigo, la violenza. E, calandosi nell’ambiente rurale, ci ricorda che la desolazione morale non è tanto un fascino discreto, quanto uno squallore informe e senza fondo; esattamente come il complotto è, essenzialmente, il prodotto della vigliaccheria e del tradimento. Contemporaneamente, le verità inconfessabili cessano di essere le trasgressioni che suscitano scandalo nella mente dei benpensanti, per diventare orrori primitivi che provocano, nella pelle di tutti, lo stesso lancinante raccapriccio. L’adrenalina e il sudore ritornano al loro ruolo di secrezioni ghiandolari, che impregnano l’azione non come piccanti e coreografici additivi, bensì come le aspre emanazioni della sofferenza umana. In questa storia, essere uomini è un concetto pesantemente condizionato dalle funzioni fisiologiche che, mutevoli come i capricciosi umori del destino, determinano in maniera imprevedibile l’esaltazione e la depressione, la vittoria e la sconfitta, l’ascesa e il declino. Il messaggio è forte di una brutalità che, anziché affrontare la realtà a viso aperto, si diffonde capillarmente lungo le trame di un’impresa criminale, sfogandosi segretamente nelle retrovie, come un toro che scalcia in un recinto abbandonato. La tragedia non ha voce per urlare, e così batte i colpi come un animale, tentando un impossibile scampo da una condizione che opprime e che, purtroppo, non può cambiare. In Bullhead l’impulso naufraga nel nonsenso, nell’inutilità, nell’autodistruzione: la ragione abbandona il campo e prende il largo, non prima, però, di aver visto spuntare i frutti della disumanità e dell’assenza di pensiero. Peccato che, nel film, il messaggio rimanga impantanato nel groviglio di un racconto che inciampa nella propria complessità, e che, nella sua discontinua lentezza, denuncia la difficoltà a convertire cinematograficamente l’intricato sviluppo della storia. Il lungometraggio di esordio di Michael Roskam segna il classico inizio promettente che, nella sua accuratezza registica, non riesce, tuttavia, a stringere le fila del tessuto narrativo; quest’ultimo rimane quindi piatto e informe, senza dotarsi della necessaria struttura compattata dalla sintesi e modellata dal ritmo.
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