Regia di Ole Giæver vedi scheda film
Non è un thriller, e non è un film d’avventura. È il dramma di due donne ed una montagna. È la storia di una spedizione assurda, intrapresa quando la stagione è sfavorevole, ed il cui scopo è dimenticare, o forse, al contrario, è ricordare. Il freddo della Norvegia copre il paesaggio dei colori smorti e metallici dell’inverno, e stringe i corpi di Nora e Solveig in una tensione glaciale, che trasforma il loro trasporto amoroso in un ambiguo turbamento: ognuna delle due si specchia nell’altra solo per vedervi riflesso il proprio dolore, in un rimbalzo in cui si alternano il rancore ed il senso di colpa. L’ultima volta che sono salite su quella cima, con loro c’era una terza persona: era il piccolo Vetle, di appena cinque anni, che le seguiva su per i sentieri abbracciato al suo thermos giallo. Un bambino partorito da Nora, ma figlio di entrambe le mamme. Qualcosa di irreparabile è successo, su quella vetta. Da allora sono passati due anni, e quell’escursione si ripete, oggi, per ripercorrere un cammino che si è tragicamente interrotto sul più bello: rifare insieme quella strada forse può servire a riannodare i fili di un rapporto che, da quel momento, è a sua volta precipitato nel vuoto. È strano vedere le due ragazze che si dividono il cibo e le bevande, dormono nella stessa tenda e procedono una accanto all’altra, eppure sono come estranee. Sono come due suoni di diversa frequenza, voci che a tratti si rincorrono, a tratti si respingono, senza mai fondersi in armonia. Non riescono a tenere lo stesso ritmo. Non riescono ad intendersi su quando è bene stare ognuna per suo conto, e quando invece è opportuno colloquiare e collaborare. Il trauma ha prodotto un grave sfasamento in quella che, un tempo, era una serena consonanza di esistenze. Parlare al plurale è diventato difficile, e il noi si è sciolto in un tu ed un io che vivono separati, e non hanno più nulla in comune, nemmeno quel bambino che li univa nella carne. L’essenza di questo film è un minimalismo frantumato e sconnesso: è l’espressione nervosa ed insicura di due metà che non si incastrano più, eppure non smettono di tastare nel buio per ritrovare un punto di contatto, in cui tornare a combaciare. Incomunicabilità non è solo la scelta del silenzio: è anche e soprattutto la frustrazione di non poter dialogare, di provare un approccio, senza ottenere alcuna risposta. La coppia si spezza quando, all’interno di essa, lo stesso dramma assume due volti distinti: si può guardare alla morte di Vetle da madre o da amica di quest’ultima, si può rifiutare la consolazione o cercare di darla, e se le due cose avvengono contemporaneamente, il malinteso diventa crudele, come un’evidenza imposta a chi vorrebbe salvarsi da una realtà insopportabile annullandola nell’oblio. Cancellare, superare, ricominciare: Nora e Solveig vorrebbero tentare tutte queste soluzioni, ma non sanno intendersi sul modo in cui organizzare il progetto di una nuova vita. Nora sta ferma ad aspettare, mentre Solveig cerca di correre, ma quando la prima avrebbe la tentazione di fuggire, la seconda la invita a restare. Abbiamo un’eternità davanti a noi. No, non è vero, il tempo stringe. Le due protagoniste attraversano la storia con velocità diverse, e la pellicola salta, si inceppa, e poi riprende a girare da un’altra posizione. La sceneggiatura, gelidamente, si sfarina come neve tra le dita. L’incomprensione diventa un soffio timido ed educato. La verità che fa male si scorge lungo il tratteggio di una feritoia sottile e discontinua. È la traccia indistinta di una pennellata che si trascina leggera su un foglio bianco. Il segno di un passaggio immaturo e malfermo. Però pieno di creative esitazioni.
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