Regia di Thomas McCarthy vedi scheda film
La rivincita dei titolisti italiani. Nel senso che Il Senso del film è (involontariamente) riassumibile nella traduzione “divulgativa” di rito. A perpetrare, un po’ per caso un po’ per desiderio, le mosse vincenti sono - ovviamente - personaggi perdenti: è tempo di crisi, e gli estremi rimedi ai mali estremi sono garanti di simpatia. Peccato che gli uni e gli altri sian solo mosse. «E i cattivi non sono cattivi davvero/e anche i buoni non sono buoni davvero/proprio come me e te» cantano I Cani: col loro esistenzialismo qualunquista di derivazione indie e spocchia post indie, potevano candidarsi per il soundtrack al posto di Jon Bon Jovi. Anche noi vorremmo «essere in un film di Wes Anderson», invece che nell’impasse assolutoria di un autore che ha visitato climi meno temperati e ben più pregnanti (L’ospite inatteso), ma che qui sceglie di fermarsi a metà via tra il quadretto d’interno basso borghese e la discettazione sulle seconde possibilità della medietà umana. Rappresentata da un Paul Giamatti brutto e cattivo e indolente e bugiardo, che - ovviamente - porterà fino in fondo soltanto il primo degli appellativi. Avvocato d’ufficio senza clienti, allenatore di wrestling senza talenti, ha una moglie (Amy Ryan, l’unica presenza piacevolmente spiacevole) e due figlie, di cui una troppo piccola per parlare e l’altra troppo grande per ignorare la progressiva débacle familiare, che tenta di arginare col “collante” del croquet. Il capofamiglia trova l’America (in miniatura, siamo pur sempre nel Jersey) in un vecchietto demente: 1500 dollari al mese per fargli da tutore. Il compito è delicato e il tempo sproporzionato, quindi l’anziano viene recluso tra i suoi disgraziati simili e l’assegno di mantenimento mette in regola bollette e coscienza. L’arrivo del nipote del vecchio, adolescente tatuato e ossigenato, fa sperare che qualcosa succeda. Poi scopri che gioca a wrestling da dio, che ha una mamma in rehab, che i tasselli andranno a ingolfare i pochi motori sgradevoli rimasti. E il bieco egoismo diventa coscienza morale passando dalla porta di servizio. Perché l’opera terza di Thomas McCarthy è intrisa di quell’aura indie che pretende l’happy ending o la rovina catartica, ma si arena nella palude (auto)compiacente della lezione.
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