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L'emigrante

Regia di Youssef Chahine vedi scheda film

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La recensione su L'emigrante

di Peppe Comune
9 stelle

Ram (Khaled El Nabawy) è un giovane idealista che sogna di affrancarsi dalla vita nomade cui ha sempre vissuto. È il figlio prediletto del patriarca Adam (Michel Piccoli), che in lui vede le fattezze precise della defunta moglie. Questa preferenza non è ben vista dagli altri sette figli, che per invidia nei confronti del giovane fratello lo sottopongono ad ogni tipo di angheria. Arrivando addirittura a venderlo come schiavo ad una carovana diretta via mare nell’Egitto dei Faraoni. Ma qui Ram riesce a farsi strada dimostrando una grande attitudine ad applicare metodi innovativi nella coltivazione della terra. Grazie alla sua intelligenza e alla sua grazia, riesce ad ottenere i favori di Amihar (Mahmoud Hemida), il potente capo dell’esercito del Faraone, e di Simihit (Yoursa), la bellissima moglie del comandante nonché sacerdotessa del culto di Amon. Sullo sfondo imperversano dure lotte intestine, nei grandi palazzi del potere si consumano intrighi tra gli adepti di diverse divinità. Ma l’ebreo Ram rimane devoto al suo unico Dio, e pensa solo a lavorare la terra. Studiando i modi per come renderla sempre più fertile.

 

scena

L'emigrante (1994): scena

 

“L'emigrante” di Youssef Chahine è un film capace di far parlare passato e presente con raffinata eleganza, di collegare le origini storiche dell’Egitto con gli impliciti sotto testi politici del periodo storico coevo. Il seme incendiario del fanatismo religioso, la dura vita di chi ovunque si sente uno “straniero”, il valore ambiguo dei sentimenti umani, il potere castrante della famiglia, la difficoltà a far passare come delle cose buone le novità, sono tutti aspetti che fanno sentire la loro presenza lungo tutto il film.E l’autore egiziano prende a prestito una libera lettura della storia biblica di “Giuseppe venduto dai fratelli” per farne il punto di partenza di una riflessione sulla storia molto più amia.     

L’afflato melodrammatico, la cura quasi coreografica della messinscena, il taglio epico nella ricostruzione storica degli eventi rappresentati e l'uso di una fotografia carica di calore e colori, sono caratteristiche riconoscibili del cinema di Youssef Chahine (presenti con ancora più evidenza nel successivo “Il destino”, sulla figura imponente del filosofo Averroè). Youssef Chahine è forse il primo grande autore africano della storia del cinema, con la pregevole attitudine a piegare gli stilemi scenografici occidentali (dal western, dal melò, dal musical, dal kolossal) alle sue esigenze particolari, come chi sente l’urgenza di mettere in connessione la propria arte con quella che si respira in giro per il mondo, di usare il cinema “degli altri” per fornire delle chiavi interpretative alla millenaria storia del suo paese.

“Come Giuseppe, figlio di Giacobbe, nella bibbia il giovane Ram, esposto alle ostilità della natura e della brutalità della sua tribù, lascia il suo paese per recarsi nell’Egitto dei Faraoni alla ricerca del sapere e della luce. Questo film narra la storia di questa lotta …”

Già dalla didascalia che apre il film, l’autore egiziano rende chiaro l’intendo di voler dare un peso specifico rilevante alla crescita intellettuale di Ram, che passa per un’emancipazione graduale ma irreversibile, dalla posizione di fratello indesiderato prima e dalla condizione di schiavo poi. Sullo sfondo di sanguinose lotte tra sette religiose si dipana quindi la storia di Ram, che è quella di un uomo che oscilla tra l'estasi spirituale e l'inclinazione laica nel rapportarsi con le cose del mondo, capace di apprendere i saperi dell’agricoltura attingendo alla sola esperienza del lavoro, così come di vincere le tentazioni della carne (per la bella Simihit) o insani propositi di vendetta (contro i fratelli). Egli è il figlio di un patriarca che in mezzo ad un universo politeista pratica la devozione per il suo unico Dio con amorevole discrezione. Ram tende alla conoscenza perché impara presto a capire che solo il sapere può dargli la facoltà di indirizzare a favore dei primari bisogni del genere umano i doni offerti dalla natura. E allora eccolo mentre cerca di studiare il modo di portare l'acqua alle feritoie della terra piuttosto che aspettare prodigi divini che piovano dal cielo, o mentre cerca di renderla fertile attraverso il duro lavoro e non praticando riti propiziatori. Questo lo porta ad avere un rapporto con la religione dei padri di tipo più intimista che esteriore. Più legato ad una devozione dinamica per la natura trascendente di Dio che alla passività d’approccio scaturita dalla superstiziosa accettazione del suo arbitrio. Ram si sente più un figlio delle cose terrene che un dono del cielo e usa la religione per fare dei frutti della madre terra il tramite più diretto tra il volere divino e i bisogni reali delle persone. Come già scritto in precedenza, in mano a Youssef Chahine, la vicenda esistenziale di “Giuseppe venduto dai fratelli” serve allo scopo di far giocare di sponda una storia antica come l'Egitto con le sempiterne lotte per la conquista della libertà. A conforto, verrebbero queste belle ed emblematiche parole che Ram dice ad Amihar durante un risolutivo scambio di opinioni. “Strano che dopo aver coltivato il suolo d’Egitto, aver passato così tanto tempo qui, qualcuno dica ancora non sei dei nostri”. Come non scorgere in queste parole la delusione nel non vedere riconosciuto come un naturale fatto del mondo il carattere migrante di tutti i popoli ? Come non rinvenirvi il fastidio di doversi sentire un estraneo nel paese che ha contribuito a far crescere lavorando la terra ?  Per sua intima natura, Ram si sente un figlio del mondo e l'elegante regia di Chahine avvolge la sua figura mitica come per ricordarci ogni volta quanto lo stare al mondo praticando la devozione per la terra valga come patente di cittadinanza più di un qualsiasi altro requisito deciso d'autorità.

A mio avviso, fondamentali nell’economia della narrazione sono soprattutto due personaggi. Primo, la figura imponente di Amihar, a cui Chahine affida il ruolo di braccio armato del Faraone, un soldato che rimane attaccato alla difesa della causa regnante facendo più ricorso all’ascolto dell’altro che all'esercizio meccanico della forza in armi. Secondo, Adam (impersonato da un intenso Michel Piccoli), il vecchio saggio che pur avendo i piedi ben radicati nelle sue antiche tradizioni sa scorgere in questo figlio anticonformista i segni di quei cambiamenti che devono compiersi per il bene di tutti. Il finale non si dimentica, immerso in un patos sentimentale che arriva a farsi aperta commozione, senza che però questo si trasformi in qualcosa di inutilmente melenso. Un alternarsi di partenze e di ritorni, di distacchi e di riavvicinamenti, di addii sofferti che non si possono più procrastinare e di affetti che si possono finalmente riabbracciare. Insomma, un destino comune a chi, in ogni tempo e luogo, è sempre costretto a vagare per il mondo per cercare il posto migliore dove poter costruire la propria e l'altrui felicità. Grande cinema di un autore che troppo tardivamente è stato distribuito nel nostro paese. Da riscoprire.

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