Regia di Ulrich Köhler vedi scheda film
L’Orso d’Argento a Berlino 2011 ci porta la versione cupa e teutonica del mal d’Africa. Ebbo Velten è un medico tedesco, operante presso un ospedale di una zona rurale del Camerun, e la sua follia è non riuscire a staccarsi da un luogo che non ha più bisogno di lui, e verso cui comincia a provare disgusto. Quel posto è come un alter ego selvaggio che rifiuta, ma dal cui feroce abbraccio non riesce a liberarsi: lì l’uomo si è costruito una seconda vita con una donna locale da cui ha avuto una figlia, ma questo bene d’amore ha la consistenza bituminosa di una densa acqua di palude. La giungla è buio e silenzio infernali. Il cinema di Apichatpong Weerasethakul ce ne ha dato la prova, in immagini, immergendo il suo obiettivo nel fitto delle foreste thailandesi. L’oscurità è per lui l’inevitabile epilogo di ogni storia, che nasce sotto il sole della quotidianità, ma poi si inabissa nel mistero. Il film di Ulrich Köhler sembra voler riprendere questa struttura crepuscolare, adattandola alla prospettiva europea, per la quale il giorno rappresenta il lavoro ed i progetti, e la notte la disillusione, accompagnata dal senso disperante dell’inutilità. Perdersi ha due accezioni diverse, in Oriente e in Occidente. Dalle nostre parti significa smarrire il filo dei nostri obiettivi, deviare dal percorso che poteva condurre alla nostra realizzazione. Dalla parte opposta del mondo, equivale, invece, ad abbandonare la propria individualità per tuffarsi nell’assoluto. Per noi è il nulla, per gli altri è il tutto. Ebbo, alla fine, è un uomo distrutto, forse perché è stato pavido, forse perché è stato egoista. Si è lasciato andare e non è più stato in grado di tornare indietro, né di usufruire del beneficio di una saggia rassegnazione. La sua deriva è l’abbrutimento morale di chi non è più consapevole della propria identità. La regia di Köhler, nella seconda metà del film, riesce a disegnarlo come un individuo spaesato, che pure è tutt’uno con l’ambiente in cui vive. È l’intruso che, però, non è pensabile riposizionare altrove. La sua giusta collocazione, semplicemente, non esiste. Non è più bianco, ma non per questo è diventato nero. Non appartiene più alla nazione in cui è nato, ma nemmeno a quella in cui ha deciso di stabilirsi definitivamente. È l’essere che appartiene, in maniera indefinita, al regno animale, e da questo è interamente posseduto, senza più alcuna possibilità di scelta. La metamorfosi – a cui si fa esplicitamente cenno, en passant, in una battuta – è un processo che, in Ebbo, è avvenuto sottopelle: non ha minimamente intaccato l’apparenza, però ne ha completamente svuotato l’interno, senza provvedere a riempirlo di nuovi contenuti. Che qualcosa è cambiato, lo percepiamo, ma senza veramente vederlo. L’aria sembra ferma, in un angolo sperduto di mondo dove non sembra più esservi motivo né di sperare, né di temere alcunché. L’umanità, in quella terra di missione, ha improvvisamente cessato di essere tragica, afflitta dalle epidemie e dalla povertà, e si è tramutata in uno sparuto popolo senza volto, sospeso nell’attesa di un perché. Le cure di Ebbo non hanno portato la salvezza, ma solo una sorta di rarefazione asettica, che ha addormentato l’anima di quella gente. La malattia del sonno è stata debellata – sono ormai pochissimi i casi registrati – ma la fine del dramma ha diffuso una nuova forma di torpore, in cui il pathos e l’eroismo sono stati affondati nel mare calmo della normalità. La guarigione disumanizza, perché fa venir meno la voglia di combattere e le occasioni di sentirsi fieri di se stessi. Ebbo non può più trarre soddisfazione dalla sua efficienza, dai suoi successi contro il male, dal suo “generoso” investimento di tempo, denaro ed energie. I valori epici del suo mondo sono tramontati, ed i sentimenti non li hanno sostituiti. C’è una morte che non prevede agonia, perché inizia con la caduta nell’incoscienza: con il sonno, appunto, che ci divora lentamente e, con la primordiale pazienza della natura, macera la nostra materia fino ad inghiottirci.
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