Regia di Joshua Marston vedi scheda film
Un cavallo da traino rimorchia Mark (Refet Abazi) e suo figlio Nik (Tristan Halilaj, nel film non ancora diciottenne). Percorrendo quotidianamente il sentiero che fende un terreno particolare, l’animale conduce i padroni fino al punto in cui i due sono costretti a scendere dal calesse per rimuovere dal confine alcune pietre messe lì da Sokol, l’attuale proprietario immobiliare. Il percorso è una scorciatoia utile a non far stancare troppo l’equino, ma Sokol non è dello stesso parere e, durante una sosta al bar del paese, stuzzica Mark rivendicando esosamente i diritti di pertinenza.
Quello che all’apparenza nasce come un attrito facilmente conciliabile, precipita nel dramma quando Sokol viene verosimilmente ucciso da Mark e si trasforma in una lotta tra famiglie che si rifanno a vecchi codici “civili” balcanici che, al giorno d’oggi, sembrano aver perso il senso della misura. L’onore si paga con la vita, il desiderio d’amore con qualche revolverata di avvertimento.
Siamo nell’attuale Albania, l’ambiente è quello di una realtà basata su una vita ai limiti dell’autosostentamento agricolo. La famiglia di Nik abita in una casa in costruzione (il primo piano è un cantiere aperto) probabilmente abusiva, e vive alla giornata grazie alla vendita del pane e al lavoro della madre. Ci sono quattro figli da mantenere tra i quali Rudina (Sindi Lacej), la sorella sedicenne di Nik, più lungimirante e sagace di lui.
I maschi anziani sono come un crocevia di strade chiuse. Legati a ruoli sociali che vengono dal passato, scelgono e decidono i destini delle vite altrui, si sostituiscono al ruolo formativo della scuola, all’educazione nei confronti di una vita moderna. Testardi, seguono alla lettera le vetuste norme del Kanun che prevede il diritto alla vendetta da parte della famiglia di Sokol, la quale può così uccidere qualsiasi parente, purché maschio, del presunto assassino (fuggito non si sa dove).
Grazie alla discreta regia di Joshua Marston, già apprezzato autore di “Maria Full of Grace”, riusciamo a decifrare quelle verità che si nascondono dentro la prigione/carcere che diventa la casa. Nessuno, soprattutto il figlio maschio più grande, potrà più uscire dalle quattro mura domestiche, pena il rischio di essere ucciso. L’edificio diventa così un territorio inospitale che si ingrandisce sempre più oltre la soglia dello sconforto.
Nik, possibile e più agognato bersaglio, guarda con diffidenza all’uso delle armi, cerca di rendere meno triste il proprio carcere creandosi uno spazio-palestra su misura, sgasando per casa con un ciclomotore truccato, costruendo tavole tappabuchi, innalzando per quel che può alcune mura facendosi aiutare dal fratellino più piccolo. L’isolamento forzato produce il miraggio dato dall’uso di personal computer e di telefonini. Tracce di evoluzione disseminate qua e là che cercano di saziare una imprescindibile voglia di corrispondenza di amorosi sensi con una compagna di classe e una imprudente apertura verso il prossimo.
Il destino dei giovani è segnato, soprattutto se si tratta di donne: esse lavorano, sono le uniche responsabili economiche, pensano razionalmente, propongono un compromesso politico ma non vengono ascoltate anche se solo loro conoscono davvero il significato della rinuncia, costrette a vivere un senso di follia permanente senza poterlo erompere. Questo aspetto della sceneggiatura ha il grande merito dell’approfondimento tramite un processo continuo di allontanamento e di penetrazione, non semplificando quasi mai lo spessore psicologico dei personaggi.
Alla fine sarà Nik a patire, per assurdo, il castigo più terribile. Dopo l’inumana sofferenza dovuta alla mancanza di una vita normale, troverà il modo di essere “libero” a qualsiasi prezzo. Forse è solo attraverso questa soluzione che potrà conoscere il senso di responsabilità e la saggezza necessaria a raggiungere la piena consapevolezza di se.
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