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Midnight in Paris

Regia di Woody Allen vedi scheda film

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La recensione su Midnight in Paris

di (spopola) 1726792
6 stelle

Cambiano gli interpreti, gli scenari, ma non il senso generale delle cose. Quello di Allen è ormai diventato un cinema di maniera. Spesso le sue battute sono fulminanti (ma ormai ampiamente prevedibili) e dunque anche di fronte a un risultato più compatto e scorrevole come questo, non posso che restare ampiamente insoddisfatto.

Nel suo peregrinare fra le città d’arte e i finanziatori della vecchia Europa, approcciandosi a Parigi con il suo cinema ormai diventato sempre più “alimentare” (inteso come necessità primaria di sostentamento) anziché il frutto maturo di una genuina ispirazione che ha fasi sempre più intermittenti, il nostro Woody con Midnight in Paris ha ritrovato forse una concentrazione maggiore e un gusto più genuino del “narrare”, ma ha comunque fatto ancora una volta un’opera sia pure “intelligente”, gradevole e ben girata  (di “classe”, come si sul dire, ma sempre di “riporto” però) che attinge a tematiche e modalità riprese a piene mani (quasi fotocopiate) dal suo illustre e glorioso passato e che ancora una volta infarcisce di gustosi cliché (invero abbastanza stucchevoli e stantii per i miei gusti) nel presentarci una galleria di consueti ed usurati personaggi che sono il riflesso (psicologicamente immobile) di se stesso e delle sue ossessioni, figure di riferimento e di contorno comprese, il tutto (ri)creato quasi con lo stampino inserendo il pilota automatico, e di conseguenza con pochissimi sussulti di effettiva novità.

Cambiano insomma gli interpreti, gli scenari, ma non il senso generale delle cose, e quello che più mi infastidisce, è il fatto che il suo è ormai diventato un cinema di “maniera” (o, se vogliamo essere più magnanimi, “della nostalgia”) che in me purtroppo suscita limitatissime emozioni e qualche fastidiosa reticenza (Carla Bruni  per esempio poteva davvero esserci risparmiata, ma forse la sua assenza avrebbe significato meno finanziamenti a disposizione, visto il ruolo centrale che ricopriva in quel momento nella gestione del “potere” in Francia).

Spesso le sue battute sono fulminanti e lo sappiamo (ma ormai ampiamente prevedibili) e quindi ancora una volta, anche di fronte a un risultato formale e di scrittura più compatto e scorrevole,  riesco ad andare appena oltre la sufficienza. E considerato poi che di “riferimenti” antichi si deve inevitabilmente parlare perché è proprio lui che li richiama in causa, diciamo subito che… per  esempio La rosa purpurea del Cairo da cui ha attinto a piene mani (ma non solo da quella)… era tutt’altra cosa, ed è proprio dal confronto diretto che non posso non fare e tenere presente, che la mia delusione si fa più cocente, perché entrato nella sala, mi resta solo da confrontarmi con le “possibili” variabili (che appaiono di volta in volta più marginali), perché per il resto, so già dove andrà a parare, e quindi mi trovo a seguire le vicende, con un senso di sussiegosa noia che non giova al rapporto empatico sempre necessario per un “gradimento” ottimale.

Un film di testo, un raffinato atto d’amore per la Ville Lumière, protagonista assoluta dei primi minuti con un montaggio serrato di inquadrature fisse ha scritto Mario Mazzetti… (ma non aveva già fatto qualcosa di simile con Manhattan?): se di atto d’amore a un città e a un’epoca lontana si deve parlare, preferirei allora di gran lunga ritornare a quell’omaggio fiabescamente più sincero con scorci e architetture in gran parte ricostruiti in studio da  Minnelli per il suo Un americano a Parigi, dove la “passione” e il trasporto per i magici luoghi di una città incantata come quella erano riferimenti più freschi, immediati ed “emozionali”. Per Allen, diventano invece solo una splendida serie di “patinate” cartoline turistiche chiamate ad illustrare i consueti luoghi eponimi che la connotano da sempre e ne riconfermano il fascino in maniera non molto diversa da quella che può offrirci ogni guida fotografica che si rispetti: singolarmente ci ho trovato molte corrispondenze (perdonate l’immodestia) con dei miei scatti - fatti ovviamente in bianco e nero nel lontano 1967 con una Ferrania procuratami con i punti e il concorso a premi della Mira Lanza - quando per la prima volta, da visitatore imberbe e poco preparato, mi immersi cuore e anima in quella che all’epoca era davvero “la città dei miei sogni” e anche il vedere Place du Tertre e la Torre Eiffel dal vivo mi mandava in brodo di giuggiole e mi faceva immaginare di aver raggiunto il Paradiso).

 

Andando nel concreto (e al di là delle mie riserve, che sono più che altro senili mugugni molto  personali e privati di chi non si accontenta mai quando si parla di “grandi autori” in fase decisamente calante) devo comunque riconoscere che – complice un cast affiatato e come al solito ben diretto, Allen – seppure molto lontano dai suoi standard di “genio” assoluto dei suoi rimpianti tempi migliori che credo ahimè ormai purtroppo irripetibili - ci consegna un film compatto e leggero, venato da suggestioni e considerazioni autobiografiche (che però già conosciamo a menadito) produttivamente sontuoso e sorretto dall’immancabile colonna sonora jazz, per una volta coeva  rispetto alle vicende narrate, e si può tranquillamente immaginare quanto si sia divertito a far cantare Let’s do it (Let’s Fall in Love) a un giovane Cole Porter fatto rivivere sulla scena insieme a una scontata compagine di  personaggi importanti e carismatici che hanno fatto la storia dell’arte e della cultura che in quei “ruggenti anni ‘20” avevano fatto di Parigi la loro patria d’adozione, come in una immaginaria e personale galleria da museo “parlante” delle cere…. e non a caso, sarà poi proprio la musica di Porter a far quadrare come di consueto il cerchio e a condurre il protagonista dentro un passato “mitizzato” che lo trascinerà  verso un finale liberatorio e propositivo… ma certamente altrettanto prevedibile.

Inutile tornare a spendere parole sulla storia ormai ben conosciuta… preferisco semmai parlare del “senso” di questa “operazione nostalgia” che Allen  ha costruito intingendo la penna non solo nell’ironia, ma anche nel rimpianto malinconico di un’epoca così idealizzata e lontana, vista e rivisitata come necessaria fuga da un insoddisfacente presente, che diventa lo specchio deformante e deformato delle proprie frustrazioni.

Sarà di conseguenza lo spleen sensibile del protagonista a determinare il necessario “corto circuito temporale” che, come accade spesso nelle fiabe, si produce  allo scoccare della mezzanotte e che si concretizza nell’arrivo di una luccicante auto d’epoca occupata da un gaudente Francis Scott Fitzgerald accompagnato dalla moglie Zelda, che invita il disilluso Gil (personaggio centrale della storia alle prese con le proprie insicurezze e insoddisfazioni e scrittore in difetto di ispirazione che deve procedere alla stesura di un nuovo romanzo che proprio “non gli viene” e prossimo alle nozze con la figlia di un accigliato esponente del Tea Party repubblicano, tanto per precisare le coordinate di un presente tutto da rinnegare e da cui fuggire a gambe levate) a unirsi a loro e immergersi così nelle feste, nei vizi e nei liquori dei bar e delle case private popolate da fior di artisti che animavano la città e la cultura in quei tempi diventati “memorabili”: Cole Porter appunto, Ernest Hemingway , una un tantino stereotipata Gertrude Stein prodiga di saccenti consigli (e naturalmente colui che la immortalò su tela: Pablo Picasso, proverbiale “sciupafemmine”) senza trascurare uno spumeggiante Salvator Dalì e gli amici surrealisti Man Ray e Luis Buñuel che ovviamente non si scomporranno più di tanto nell’apprendere l’atemporale provenienza dell’ospite (riducendo però queste figure a semplici macchiette, Allen non conferma forse allora che ormai riusciamo a vedere e rappresentare l’arte e gli artisti solo come un “luogo comune” abbastanza banalizzato e pronto per essere assorbito e digerito dal marketing mediatico più becero e conforme? e non è forse anche questo se non proprio negativo, per lo meno un poco diseducativo?).

Le sortite notturne dell’uomo, i sospetti della fidanzata, lo scollamento sempre più marcato dalla realtà (e soprattutto dalle prospettive di una vita familiare che un poco lo ripugna), danno vita così  a una narrazione in cui i personaggi storici richiamati in vita, come ho già accennato sopra, sono riprodotti esattamente (e scanzonatamente) come ciascuno avrebbe potuto immaginarli per quello che di loro si è detto e scritto (per renderli così immediatamente riconoscibili all’impatto?) nello sviluppo di una storia parallela fatta di complicazioni sentimentali e di (im)possibili attrazioni (rese difficili anche dalle “discrepanze” temporali) che diventa a sua volta centrale quando entrano in scena la splendida modella-amante di Picasso e un manoscritto pronto per essere rivisitato da così tanti “illustrissimi pareri”.

La morale che questa bella fiaba intende veicolare? Credo di non sbagliare nel dire che è quella di un sano e consumato relativismo, che a me sembra la scoperta dell’acqua calda, visto che intende evidenziarci una verità quasi lapalissiana, e cioè che ciò che non abbiamo mai vissuto (quel passato lontano tanto favoleggiato) è stato il presente di qualcun altro (che magari non lo trovava altrettanto esaltante), esattamente come il nostro oggi che avvertiamo come grigio e insoddisfacente potrà diventare un giorno l’agognato “vintage” delle successive generazioni, per convenire allora, visto che nulla è così scontato come sembra, che è forse  propedeutico e salutare smettere di coltivare sogni di fuga verso quelle “ipotetiche età dell’oro” e rimanere invece e con coraggio calati nel presente in modo meno apatico e darsi un po’ da fare per cambiare in meglio il senso delle cose. Ma era proprio necessario aver passato la settantina per accorgersi di questa verità e proclamarla a chiare lettere? io credo proprio di no, anche perché lo stesso Allen ci era arrivato – e giustamente – molto prima e ce lo aveva già detto con parole e salse ben più saporite.

Mi fermo ovviamente qui e non vado oltre per non sciupare possibili sorprese: provate semmai voi ad immaginare come andrà a finire (anche se credo che se conoscete già Allen e il suo cinema – soprattutto quello dell’ultimo periodo - saprete già in partenza come si concluderà il percorso narrativo, perché poi cambiano gli attori, gli sviluppi, le battute, ma il succo è sempre lo stesso e non si muove).

Gli interpreti sono come in ogni film del regista, “sempre all’altezza della situazione”, a partire da un bravissimo Owen Wilson che riproduce elegantemente i tic e le introversioni di un Allen che non ha più l’età per incarnare in prima persona simili figure e deve necessariamente ricorrere a surrogati che plasma a sua immagine e simiglianza con la richiesta di una adesione così totale, da farli diventare “analoghi e corrispondenti” (in forma certamente più creativa però perché anche l’interprete alla fine ci mette per fortuna molto del suo)  e un’incantevole Marion Cotillard, la modella-amante di Picasso che scalderà il cuore al nostro imbranato protagonista. Intorno a loro, l’altrettanto bellissima  Rachel McAdams, Michael Shenn, Adrien Brody (efficace ed attendibilissimo Dalì), Lèa Seydouk e la gustosissima e “fisicamente” debordante  Gertrude Stein di una ritrovata Kathy Bates in smagliante forma.

Voto: ***½

 

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