Regia di Béla Tarr vedi scheda film
Forse l'apocalisse è già arrivata e nessuno se n'è ancora accorto.
"Dove se n'è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! L'abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strofinare via l'intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? – Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo ancora nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli – chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo lavarci? Quali riti espiatòri, quali sacre rappresentazioni dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo anche noi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione piú grande – e tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!"
- Friedrich Nietzsche -
A Torinói Ló è il canto del cigno di Bela Tarr, il suo testamento al mondo della settima arte. Il regista ungherese, pittore di Apocalissi, crea la sua opera ultima ; dipinge, sulla tela della vita, l'immortalità dell'accidia, il reiterarsi dell'apatia vitale : lascia che gli esseri umani, in tutta la loro decadenza, galleggino in una dimensione mortifera, senza mai sprofondarci definitivamente - toglie lo schianto e lascia il precipizio, all'interno del quale si perpetuano sofferenze immobili, esistenze sbiadite, disinteressate, svuotate dall'Azione primordiale, assuefatte dalla ciclicità dell'Uguale, dal movimento replicato. Palesare l'Assenza della vita ; dare una funzione alla Morte, infonderle un moto geometrico ed inutile. Perdersi nell'Immagine reiterata. Un film straordinario e immenso, che inquadra la quotidianità dell'essere umano ; la ripetitività dei gesti giornalieri e l'aspettativa inconscia che qualcosa di nuovo accada, che la normalità venga stravolta e acquisti un colore diverso - non necessariamente migliore o peggiore, ma semplicemente "differente", come una ventata d'aria fresca. Tutto ciò si sviluppa come se fosse una sorta di malattia esistenziale ; un continuo ripetersi e susseguirsi delle stesse azioni, stessi movimenti e stessi atteggiamenti. E' quasi un virus primordiale, un cancro cosmico che caratterizza e attanaglia l'uomo ; non viene rappresentata la morte, ma la vita in tutta la sua lentezza devastante, in tutto il suo procedere lento e goffo, come fosse un cataclisma abituale che non devasta le nostre giornate, ma le rende dannatamente ordinarie e identiche l'una con l'altra. Un film che inquadra la pesantezza della vita umana : focalizza e risalta gli strascichi interiori ed esteriori che l'essere umano si porta dietro da tempo remoto, che appartengono alle radici dell'esistenza ; tutto questo ripreso con totale realismo, sintetizzato nello strazio e nella difficoltà di compiere anche le attività più comuni e banali, ad esempio : andare a prendere l'acqua al pozzo, cucinare, vestirsi, guardare fuori dalla finestra ; tutto ciò è accompagnato da una tristezza vitale e un malessere primigenio che costringe lo spirito a degli sforzi disumani che il subconscio nasconde sapientemente. La pellicola ci (di)mostra quindi, che in ogni tipo di esercizio, fisico o mentale che sia, c'è qualcosa di sbagliato - l'errore sta alla base del mondo.
In tutto questo disagio terreno, il vento ha l'aspetto del disastro ultraterreno, una sorta di punizione indefinibile, un destino avverso e inspiegabile, che è in realtà la continuazione degli sbagli delle persone di questo pianeta : si imprime nelle orecchie e, minaccioso, filtra una tensione sorda e opprimente - pura -, che nessuna palpabile e reale insidia riesce a far cessare ; la tempesta rallenta ciò che è già rallentato, consuma ciò che è già consumato. A chi si vuole dare la colpa? All'uomo o a Dio? Forse ad entrambi?
A Torinói Ló è lo specchio filmico che il regista pone davanti allo spettatore, e mostra, senza finzioni hollywoodiane, un'evoluzione inconsistente e disinteressata, la consapevolezza passiva dell'abisso, il ripetersi del nulla, il propagarsi del vuoto giornaliero che diventa pesantemente sostenibile. Cosa rappresenta il cavallo? L'animale, in questo caso, si contrappone all'insensibilità dell'uomo : è la ribellione all'inattività di Ohlsdorfer, alla sua mostruosità, alla degradante inoperosità umana - ecco che il cavallo decide di lasciarsi morire, rompe il cerchio, infrange questo loop eterno. Questa meravigliosa opera è, simbolicamente, il seguito di 2001 : A Space Odissey. La pellicola di Kubrick terminava con una spinta filosofica, un invito a proseguire il viaggio, il cammino dell'essere umano ; Il Cavallo di Torino è la risposta a questa spinta, la prosecuzione di questo viaggio : l'uomo blocca il suo percorso evolutivo e patologicamente parlando, decide di perpetuarsi sotto forma di azioni meccaniche e cicliche - giorno dopo giorno, all'infinito - senza più nessun tipo di ambizione, ma aspettando che qualcosa di inconsueto accada, senza però fare il minimo sforzo perché ciò avvenga. Il lungometraggio è sostanzialmente la fine di tutto e, se volete, l'inizio di nulla. Una pellicola che ha il fascino della catastrofe, un'apocalisse passiva e orizzontale, come se fosse l'ultimo e definitivo lamento catatonico del Cinema - la Fine della Visione cinematografica, che torna all'origine, a l'Immagine nera -, la non-risposta a tutte le domande, la conclusione risolutiva. L'ineluttabile identico.
Il film esprime un concetto semplice e limpido, che Béla Tarr trasforma in un'opera simbolicamente inquietante e drammaticamente riflessiva.
Aridità antropologica. Il pubblico si prefigura il deserto, quindi l'apocalisse diventa stimolante. Eleva chi guarda, sprona chi vede. The Turin Horse imprime voglia e forza di andare avanti, di vivere, di migliorarsi. E' una pellicola catartica. Probabilmente IL film catartico per eccellenza.
Per chi scrive, se Il Cavallo di Torino fosse stato l'ultimo film della storia del cinema, sarebbe stata la miglior conclusione che la settima arte potesse ricevere.
Capolavoro incommensurabile, trascinante.
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