Regia di Béla Tarr vedi scheda film
Sbuffi e sudore, il respiro del cavallo si fa pesante, drammatico nella fatica del giogo. Un carretto – fantasma? – arranca nel fango, nel clangore del metallo e nei lamenti del legno. In fuga dalle dita morte degli alberi neri che sfiorano, accarezzano e graffiano, ghermiscono il cielo plumbeo illuminato da un sole dimenticato, là, pallido , in un lato dello schermo. La telecamera ondeggia arranca con il carretto e il suo occupante, ostruisce la corsa del cavallo, e fugge, segue registra e aggredisce, come una presenza ectoplasmatica, il mortale avanzare del cocchiere attraverso un vento ossessivo. Uno spirito beffardo e crudele si mischia ai vortici di nebbia, appesantisce le zampe della bestia ne spalanca l’occhio in un presagio di follia, schianta il viso del vecchio cocchiere di fronte al proprio destino.
Forse ultimo film del maestro ungherese Béla Tarr, Il cavallo di Torino, Orso d’argento alla Berlinale 2012, è un film apocalittico, girato in un feroce bianco e nero che riassume nella purezza formale della messa in scena un mondo ormai allo sfacelo.
Sono gli ultimi sei giorni di un padre e sua figlia, isolati in una casa in mezzo al nulla, sferzata da un vento continuo, ritratti in una quotidianità ossessiva rispettosa di regole patriarcali e di gesti ripetuti fino alla nausea, la nausea di una vita senza alcuna possibilità di redenzione diventa mero esistere. Non una speranza, un orizzonte. Non c’è scampo dal vento, dalla distruzione dell’anima, dallo schianto del mondo soppresso dal proprio essere corrotto. Béla Tarr dilata in tempi in lunghi piani sequenza e il disfacimento si palesa nel progressivo perdere di senso della vita consumata nei momenti domestici – vestizione, l’acqua dal pozzo, pranzo, attesa di fronte alla finestra, svestizione - sempre più difficoltosi, ostruiti da un malessere incombente, disperati . Non c’è concessione alcuna verso lo spettatore martoriato da un sontuoso lavoro sui suoni, note false scudisciate sui sensi come le nerbate date al cavalle riottoso a muoversi, da parte dell’uomo. Nel tempo astratto della quotidianità schiantata dal vacuo terrore della fine, Bela Tarr indovina immagini di sconvolgente bellezza riassumendo sugli sguardi assenti dei due protagonisti l’universalità della fine del mondo conosciuto.
Friedrich Nietszche abbraccio quel cavallo? Proprio quello? E’ Torino quella? Quel luogo disegnato dentro un orizzonte dal quale non si può fuggire? O è forse la mente di Nietszche stessa che piano piano si chiude nella buia follia di un mattino nel quale il vento si placa, il sole scompare e le parole non servono più a nulla. Una metafora triste della follia nella quale cadde il filosofo per dieci anni, prima di morire. Nello spazio coagulato dell’immagine la macchina da presa aleggia agile come un spirito, focalizza lo sguardo su punti di fuga ormai esausti, prospettive che non conducono più a nulla.
Due personaggi inchiodati al loro destino riassumono il destino del mondo intero, sublimano negli sguardi sgomenti la natura inconsapevole della fine, una percezione animale più che intellettuale. L’orizzonte nasconde l’abisso. Cosa abbiamo visto? Cosa hanno visto al di là della collina padre e figlia di ritorno dopo aver tentato la fuga? Cosa sta guardando la figlia, sventrata del nome, della femminilità e della capacità generatrice , nello sguardo fisso alla finestra verso un punto nell’universo? Fantasmi. Morte. Disperazione. Uno dei più straordinari, profondi, terribili film sulla fine del mondo, il mondo di una mente malata. Una chiusura verso l’esterno che rende incomprensibili i simboli che puntellano le certezze dell’essere umano. Ne sono certo, lo sguardo è quello di Nietszche che guarda nel vuoto. Il fuoco che avvizzisce nella stufa è il suo intelletto che si spegne. Siamo dentro la sua mente che crea personaggi deliranti. I personaggi non si nutrono più. Buio.
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