Regia di Béla Tarr vedi scheda film
Bela Tarr ha dichiarato di non voler girare più film dopo “Cavallo di Torino”. C’è da credergli. Difficile, se non impossibile, concepire o anche solo ipotizzare un seguito a questo incredibile film. Gli aggettivi “radicale”, “definitivo”, “assoluto” si sprecano spesso per film che in realtà lasciano al discorso poetico dell’autore ancora parecchio margine di evoluzione nelle opere successive. Qui invece il percorso filmico e filosofico del grande cineasta ungherese è giunto al capolinea. Dopo l’apocalisse (con la “a” minuscola, poiché trattasi di “giudizio umano”, non divino), dopo la fine della civiltà, dopo la contemplazione del nulla, non resta che il buio: e il buio, in un arte basata sulla luce come il cinema, è la morte. In una vita ridotta ai minimi termini (materiali, spirituali, sentimentali), carburata da poche essenziali risorse, accade che il cavallo smetta di obbedire, i tarli di rodere il legno, il pozzo di fornire acqua, la brace di ardere. Ma in questo buco nero generato dall’estinzione della natura, l’Uomo sopravvive: “Dobbiamo mangiare” dice il padre alla figlia. Mangiare, ossia sopravvivere, non è una scelta, ma una necessità. In un mondo emotivamente desertificato dai predatori, l’Uomo smette di essere quell’organismo intelligente, pensante, capace di elevarsi ad uno stato di coscienza superiore a quello di ogni altra specie animale, venendo anzi regredito a vegetale, a corpo organico privo di volontà, che si nutre perché “deve” e non perché lo voglia. Il pretesto niceano, che colloca l’azione in un’epoca prodroma degli olocausti del Novecento, suggerisce questa dimensione da catastrofe incombente, ma chiaramente Bela Tarr allude al presente. Infatti, per quanto possa apparire astratto lo splendido monologo del viandante, è evidente il riferimento a questa nostra triste epoca di disonestà, sopraffazione, viltà, liberismo selvaggio, sfruttamento criminale delle risorse, concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi avventori: la parte nobile del consorzio umano resta come stordita, spaesata, incapace di comprendere, finchè volta le spalle ai “compratori” e viene sconfitta senza neanche combattere, senza rendersene conto. Ogni tentativo di fuga è inutile, perché al di là della collina si estendono solo infiniti ettari di rovina; e i versi della Bibbia, letti a stento dalla ragazza, sono solo parole nel vuoto. “Cavallo di Torino” è un’opera affascinante dal punto di vista formale, costituendo un ibrido in cui convergono i vari espedienti del diario, dell’allegoria, della fuga musicale, del quadro cubista, della scultura del tempo tarkovskijana, del minimalismo bressoniano, senza contare i vari riferimenti alla letteratura magiara. Film denso, ipnotico, complesso e di grande ricchezza dialettica nonostante l’apparente sterilità, ci costringe a soffermarci sull’essenza stessa del genere umano: si prova pietà guardando ripetutamente la figlia mentre aiuta il padre a vestirsi, ma forse la scena che rimane maggiormente impressa nella memoria è quella che riprende frontalmente il padre divorare una patata bollita, con un po’ di sale, e scottarsi. Questa è semplicemente grande poesia, in forma audio-visiva. Capolavoro.
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