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Il cavallo di Torino

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su Il cavallo di Torino

di Peppe Comune
10 stelle

Il 13 gennaio del 1889, a Torino, Friedrich Nietzsche esce dal numero 6 di via Carlo Alberto. Vuole fare una passeggiata, forse, o deve andare a prendere la posta. Non distante da lui, o forse molto lontano da lui, un cocchiere ha dei problemi col suo cavallo ostinato. Nonostante lo sproni, il cavallo si rifiuta di muoversi. Al che il cocchiere – poteva chiamarsi Giuseppe, Carlo o forse Ettore – perde la pazienza e inizia a frustarlo. Nietzsche esce dalla folla e pone un freno alla violenza del cocchiere, che a questo punto è schiumante di rabbia. Il ben piantato e paffuto Nietzsche salta inaspettatamente sulla carrozza e, singhiozzando, cinge con le braccia il collo del cavallo. Il suo vicino lo conduce a casa, dove resterà su un divano per due giorni, immobile e in silenzio. Dopo questo periodo pronuncerà la celebre frase : “Mutter, ich bin dumm” (Madre, sono diventato pazzo).Vivrà una mite follia per altri dieci anni accudito dalla madre e dalla sorella. Del cavallo …. non abbiamo più notizie.

Del cavallo, del suo cocchiere (Janos Derzsi) e della figlia del cocchiere (Erica Bok) ci parla Bela Tarr, che con “Cavallo di Torino” arriva al culmine dichiarato della sua poetica sull’attesa dell’Apocalisse, ergendo un poderoso monumento al nulla e continuando dritto il suo coerente discorso sull’inizio della fine. La lucida follia deve essere un occhio che squarcia di vivida luce la tetraggine del disincanto. Le cause remote possono essere vecchie come il mondo, l’effetto immediato è un immobilismo cosciente che consente di guardare lontano. Quello del filosofo riflette la disumana gratuità della bruttezza, quella del cavallo l’avanzata poderosa del buio. Il cinema di Bela Tarr deve essere fatto della stessa sostanza arcana di cui si nutrono le vicende che tratta, altrimenti non si spiega questo potere ipnotico che è capace di sprigionare ad ogni inquadratura, il fatto che ti costringe a constatare la sconfortante presenza del tutto davanti al niente che ti si pone davanti. Nel “Cavallo di Torino” non succede mai nulla di veramente rilevante, ma la sensazione che stia per accadere l’irreparabile è più concreta delle stesse cose che vediamo scorrere sullo schermo. Ho conosciuto solo in quest’ultimo anno il cinema dell’autore ungherese e fin da subito (come già mi è capitato di scrivere) ho notato un modo del tutto particolare e unico di trattare la macchina da presa, più fisico direi, come di una cosa di cui si avverte chiaramente la presenza ben oltre l’apporto tecnico che gli è proprio, capace di generare un rapporto di intima specularità tra chi guarda e chi è guardato, di rendere partecipi di una medesima sospensione ipnotica l’oggetto rappresentato e il soggetto che deve analizzarla. Lunghissimi piani sequenza, impercettibili movimenti di macchina, stacchi di immagini per avvertirci soltanto che un altro giorno sta per cominciare (saranno sei in tutto) e un vento incessante che soffia poderoso, fanno da cornice stilistica e simbolica alla povera e monotona esistenza di due umili figli del mondo. Il padre e la figlia vivono in una modesta cascina in aperta campagna, ogni giorno si alzano alla stessa ora, la figlia si preoccupa di andare a prendere l’acqua al pozzo mentre il padre inizia l’opera di vestizione. Il vecchio ha un bracio in disuso e la figlia aiuta a vestirlo poi, insieme, bevono qualche bicchiere di palinka (due il padre, uno la figlia). Intanto, sulla stufa a legna, sono poste le solite due patate che vengono consumate una a testa in maniera frugale, quindi, il padre si alza e si mette seduto davanti alla finestra a fissare l’esterno della casa mentre la figlia esegue la solite incombenze domestiche. Il cavallo è sempre nella stalla, non vuole più mangiare ne bere, il loro unico mezzo di sussistenza non ne vuole più sapere di muoversi, lui sembra guardare con altri occhi tutta quella terra spazzata via dal vento (un figlio diretto del "Balthazar bressoniano" come ha acutamente osservato nella sua  recensione Mathiasparrow). Eppure qualcosa si sta muovendo, rinvenibile non solo e non tanto in quei piccoli eventi che rompono il monotono reiterarsi di gesti sempre uguali, come la visita di Bernhard (Volker Spengler) che, venuto a chiedere della palinka (dovrebbe essere della Vodka), fa un lungo monologo (per il quale vi rimando alla bella recensione di kikisan) in cui parla di un mondo in rovina dove "tutto si sta degradando", o la venuta di una carovana di zingari trainati da due cavalli bianchi che dopo essere stati cacciati malamente dal vecchio e aver donato un libro alla figlia promettono minacciosi di ritornare, che insieme all’indolenza del cavallo sembrano vaticinare un qualcosa che dovrà necessariamente accadere. Il cambiamento che si percepisce è soprattutto quello che si insinua nella quotidiana sacralità di un tempo che sta per consumarsi, quello che si lega alla crescente sensazione di sconforto che permea il film e che finisce per coinvolgere tutto e tutti. Una sensazione figlia della precarietà che si è impossessata del mondo e che si accompagna ai mutamenti emotivi del padre e della figlia, i cui gesti perdono via via di consistenza, fino a coincidere con l’immobilismo del cavallo. Non prima di aver tentato una fuga verso un luogo non ben precisato portandosi dietro tutto quanto è in loro possesso. Ma la terra non è più amica e preferiscono tornarsene a casa piuttosto che vagare verso l’ignoto. L’acqua del pozzo già si era prosciugata un paio di giorni prima (subito dopo la venuta degli zingari). Poi il vento cessa all’improvviso d’infuriare, fuori è il silenzio assoluto. Infine, anche il fuoco della brace “si è estinto”. Non esistono più coordinate, ne fisiche ne morali  L’inizio della fine ha appena spento la luce, è il buio. Non resta che l’attesa all’ombra della propria coscienza. Capolavoro di sconfortante bellezza.

 

http://www.wakeupnews.eu/wp-content/uploads/2012/12/A-Il-cavallo-di-Torino.jpg

Il cavallo di Torino - Janos Derzsi ed Erika Bok

 

 

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