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Il cavallo di Torino

Regia di Béla Tarr vedi scheda film

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La recensione su Il cavallo di Torino

di OGM
10 stelle

Il cinema di Béla Tarr nasce dal buio. A volte tacendo, altre volte scatenandosi in furia. E  nel buio ritorna, semplicemente spegnendo il lume della ragione e della speranza. La dolorosa follia che uccide è solo la parte più appariscente della fine del mondo: quella che colpisce i grandi, gli eccellenti, i nobili, come Friedrich Nietzsche, il cui viaggio dentro l’abisso della mente cominciò il 3 gennaio del 1889, in una piazza di Torino. Quel giorno il filosofo perse la testa alla vista di un cavallo frustato da un cocchiere, e non si riprese mai più. Un evento plateale, forse leggendario, di cui comunque la storia ha voluto prender nota. Nessuno ha mai scritto, invece, l’Apocalisse degli invisibili, di coloro che non hanno voce per far sentire attraverso il tempo: di quel povero cavallo e del cocchiere, ad esempio. Béla Tarr ci mostra il retro della pagina, e lo riempie di inchiostro. Non di parole, perché la storia dei senza nome (Giuseppe? Carlo? Ettore?) non è un racconto. È una successione di gesti che, con il loro ritmo monotono, delimitano giorni indifferenti; è il primitivo, ritmico respiro della vita che va avanti, nutrendosi, dissetandosi, dormendo ed aspettando un domani diverso che magari non verrà. E non c’è altro modo, per esprimere il concetto, che riportare sull’immaginaria superficie della carta le tracce dei suoi versi ancestrali, quei suoni disarticolati che sono un grezzo amalgama di silenzio e di frasi abbozzate. La vita di Ohlsdorfer è l’ombra sporca e lacera di quel cocchiere e del suo cavallo: è un uomo anziano, con un braccio paralizzato, che guida un carretto tirato da una vecchia giumenta, probabilmente malata. La sua abitazione è un casolare di campagna, la sua compagnia è la giovane figlia, il suo cibo è una patata bollita, sbucciata e portata alla bocca con l’unica mano che possa ancora usare. Tutto intorno la terra è sferzata da un vento tempestoso ed incessante, che forse ha già spazzato via tutto ciò che si trovava al di la dell’orizzonte, compresa la vicina città. Bere palinka stordisce, ma non serve ad accelerare il passare delle ore, né a colorare l’atmosfera cupa. La morsa dell’incombente senso di morte è così opprimente che, al confronto, persino la miseria  brilla di luce: la frugalità, rituale e composta, del vecchio e della ragazza è l’estremo lembo strappato ad un’umanità andata in rovina, offuscata dalla schiavitù del male, che ha imperversato nel mondo devastandolo. Quel desolato avamposto della semplicità è tutto ciò che resta di una realtà che si è lasciata annientare dall’avidità di pochi, divenuta la disgrazia di molti. Gli affanni quotidiani di quei due superstiti sono l’ultima fiammella  che rischiara il crepuscolo dell’uomo: un uomo che continua a vestirsi, a mangiare, a lavorare e a preoccuparsi per le piccole cose, testimoniando, testardamente, una continuità che è ormai senza prospettive. Persino la forza del cataclisma recede di fronte a tanta ostinazione. Così la fine, per la gente che vive ai margini, al di sotto della soglia di percettibilità,  arriva gradualmente, come in un naturale processo di declino.  Il suo attaccamento alla vita è destinato a consumarsi poco a poco, a suon di fatica e di aspettative deluse: i suoi sforzi sono il sommesso, disperato tentativo di mantenersi a galla al di sopra delle tenebre. Dobbiamo mangiare è l’ultima battuta del film: un invito tanto ingenuo quanto accorato, che parla di mera sopravvivenza.  D’altronde il clamore è riservato ai potenti, a coloro per i quali la vittoria e la sconfitta hanno un significato reboante, capace di capovolgere le sorti di regni interi. Agli altri rimane solo la sorda eco del battito del cuore, che risuona ovattata dentro i recessi imbottiti dal nulla: una pulsazione sottile, eppure dalla cadenza grave, come i passi della Morte che lentamente si avvicinano. Il cavallo di Torino è il perfetto film d’addio, che conclude un periodo di senso compiuto senza lasciare niente in sospeso. Quel punto finale chiude, per sempre, anche le parentesi delle metafore, gli incisi delle domande lasciate aperte, i rimandi che indirizzano verso il linguaggio traslato dell’arte. L’ispirazione ha fatto il suo corso, dopodiché ha deposto volontariamente le ali. Il pessimismo non  ci è più presentato come un’ipotesi da vagliare, come un incubo possibile in cui immergere per un attimo il pensiero. È diventato, invece, oggetto di una constatazione condivisa, di cui si può solo prendere atto, seguendo istante per istante l’esistenza di coloro per i quali si stanno compiendo i termini della condanna: è l’evidenza che non ha bisogno di commenti, che si offre impietosa allo sguardo, senza alibi né fregi, né, tantomeno, l’ambizione di farsi opera creativa.   

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