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Venti ore

Regia di Zoltan Fabri vedi scheda film

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La recensione su Venti ore

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8 stelle

Zoltán Fábri (15 ottobre 1917 – 23 agosto 1994) è stato uno dei maggiori esponenti del cinema ungherese, e uno dei leader del rinnovamento “artistico” di quel paese dopo gli anni bui dell’oppressione sovietica.

Singolarmente però in Italia non sono poi molto evidenti  le tracce del suo percorso artistico (e soprattutto si parla ormai molto poco –  non lo si ricorda quasi più – del suo titolo più importante e significativo, Húsz óra (Venti ore) del 1965 che riscosse invece a suo tempo oltre a una consistente messe di premi (Gran premio ex aequo al Festival Cinematografico di Mosca del 1965 e Premio “Cinema ’60” alla Mostra del Cinema di Venezia dello stesso anno) anche un più o meno generalizzato riconoscimento critico con qualche marginale riserva (per esempio da parte di Sadoul che ne riconobbe il valore “politico” ma meno quello “cinematografico e scrisse che si trattava di un’opera  importante soprattutto per la sceneggiatura  più che per la regia, che trovava invece talvolta scialba e non all’altezza del tema trattato). Questione di differenti punti di vista, evidentemente, poiché a mio avviso in questo film, senza mai venire meno a una coerenza ideologica e morale ben evidenziata e sottolineata, Fábri si apre infatti ad una visione problematica delle ragioni storiche ed individuali che coesistettero attorno agli avvenimenti dell'ottobre ungherese, e lo fa  non semplicemente “teorizzando” intorno alle parole, ma tenendo conto anche dell’importanza della forma legata alle scelte della messa in scena, e quindi attraverso un interessante lavoro di regia.

Se Venti ore è sicuramente il traguardo di maggiore interesse e prestigio raggiunto con la sua pluriennale attività, è più facile adesso però che il regista  venga richiamato dall’oblio per il  poetico adattamento  in chiave sociale de I ragazzo della via Paal  che gli valse una nomination agli Oscar, o per il più “antico”  Két félidö a pokolban (Due tempi all’inferno) del 1961,  liberamente ispirato alla cosiddetta “partita delle morte” effettivamente disputata a Kiev il 9 agosto del 1942, e capostipite  di un filone più volte rivisitato  sul grande schermo, proprio per la singolarità dei fatti narrati, prima con il sovietico Il terzo tempo (ancora del 1961, e quindi quasi in contemporanea  con Fábri) e poi con i successivi  – più o meno dei veri e propri remake – Quella sporca ultima meta di Robert Aldrich (1974) e Fuga per la vittoria di John Huston  (1981).

Tenterò allora - per quanto possibile – di colmare a mio modo questa evidente lacuna che mi sembra tutt’altro che giustificata (e giustificabile).

 

Venti ore deriva  da un romanzo-reportage di Ferenc Sánta (sceneggiato da Miklós Köllö). 

Anche il film è a suo modo un vero e proprio lavoro di “recupero” di quei fatti e di quella storia che utilizza la stessa modalità di narrazione. Si parte allora proprio da qui, o meglio ancora, da un giornalista di Budapest che si reca in un villaggio sperduto nelle campagne per  una sua personale inchiesta (con l’intento di fare piena luce e di dare voce alla verità) su un discusso caso du “morte” avvenuto qualche tempo prima in tragiche (e sospette) circostanze.

Il villaggio, un isolato e in apparenza tranquillo conglomerato rurale, è abitato da sempre da operai agricoli e da braccianti  delle fattorie padronali che hanno visto trasformarsi le loro condizioni con il progredire dei fatti della Storia, e le indagini del giornalista saranno proprio orientate a fare luce sui nascosti drammi di quella piccola comunità e sulle variazioni anche sociali e di pensiero che sono intervenute nel corso di due decenni densi di fatti  cruciali non solo per quel popolo, ma per il mondo intero.

Il reporter ne ricostruisce così le fasi in base alle voci – e anche ai “silenzi” e alle omissioni  - dei personaggi che incontra e che intervista, e “questo” è appunto il film: “Venti ore è la durata del reportage: non tutti però hanno capito il significato del titolo. (le parole sono del regista stesso e le ho riprese da “Intervista a Zoltán Fábri” a cura di Gianfranco de Bosio, Jean-André Fieschi e Andre Téchiné pubblicata su Filmcritica n° 159-160 del 1965) Effettivamente, è difficile concepire che un simile reportage, con tutte le diverse persone interrogate, possa svolgersi in così poco tempo. Bisogna dunque credere che ci sia da parte mia un’intenzione simbolica: le venti ore corrispondono infatti ai venti anni di cui il film racconta la storia. Le varie storie complesse che il giornalista raccoglie presso la gente del villaggio si mischiano un po’ dentro di lui, allora… coagulano e prendono “forma”. Innanzi tutto, ci sono alcuni destini umani eccezionali: quelli dei quattro uomini che hanno condiviso una giovinezza di contadini poveri e che nel 1945, dopo la guerra, sono stati colti dall’ottimismo di una “redenzione” per essere stati infine liberati dalla loro condizione di paria. A quel tempo erano molto amici l’uno dell’altro. Situazioni drammatiche però finiscono per separarli, ed essi diventano nemici. Nel 1956, le fratture sono diventate così profonde, che uno dei quattro ne uccide un altro (e anche gli altri due più riflessivi e attenti al compromesso, arriveranno quasi ad ammazzarsi).

Il film vuole dunque essere prima di tutto il tentativo di analisi di una simile situazione deformata, con l’intento prioritario di voler rispondere in qualche mondo al seguente quesito: cosa dobbiamo fare, in avvenire, per  evitare simili fratture?

Ma questi quattro personaggi sono  anche circondati da altri destini particolari, ugualmente misteriosi e contraddittori, e che la storia politica non basta a spiegare.  Da noi, fino a pochi anni fa, dominava una concezione volontaristica della Storia: si cercava di regolare per mezzo di essa le questioni artistiche, di codificarle, di renderle uniformi. Questa tendenza ha dato luogo a opere schematiche che adesso sembrano davvero avere poco senso nei tempi mutati che viviamo.

Abbiamo riconosciuto i nostri errori da ormai una decina d’anni, e lottiamo sempre di più contro una tale concezione dell’arte invero troppo avvilente. Ma fino ad ora, non è stato ancora fatto  un film che abbia mostrato gi effettivi difficili rapporti di certi personaggi rispetto alla complessità del passato, ed era ora di fare qualcosa di più concreto e diretto in proposito.

“Venti ore” guarda la nostra vita e la mostra con franchezza senza truccarla, senza cercare di dissimulare i nostri errori, mostra la nostra vita  così com’è, in ogni caso non così semplice come l’avrebbero mostrata le nostre  concezioni passate, e tenta in questo modo di andare proprio in tale direzione.

Certo, la legge sociale è giusta e non bisogna per questo arrestare il suo sviluppo verso l’uguaglianza, ma i rapporti fra l’uomo e la società sono complessi e difficili da definire come quelli fra l’ombra e la luce…e abbiamo tutti bisogno di saperne di più e di conoscere meglio le cose.

 

Zoltán Fábri è dunque giunto a Venti ore “dichiaratamente” e perfettamente guidato da un’idea precisa, e soprattutto “indirizzato” da ciò che aveva fatto e raccontato con i suoi film precedenti, dei quali questa pellicola costituisce per molti versi la “summa” artistica, ma anche l’occasione – dove era necessario che ciò venisse fatto  - per rettificare o precisare meglio ciò che prima era stato solo enunciato (o semplicemente quello che il progredire degli eventi aveva in pratica persino contraddetto, o reso molto più problematico).

Con Venti ore vengono così ridisegnati in maniera più compiuta dal regista, personaggi, problemi, ambienti e conflitti già ripetutamente frequentati in precedenza, ma mai condotti alle estreme conseguenze dialettiche a cui le spinge questa volta.

E infatti con quest’opera  vengono in tutta evidenza ridiscussi, rianalizzati e quasi “rivoltati”, molti dei “caratteri” cinematografici che  avevano animato i suoi antecedenti lavori.

Se Venti ore può lasciare per questo l’impressione di essere  meno soggettivo di altri suoi film, più nudo e diretto, si deve però evidenziare che ciò è motivato soprattutto dalla funzione anche stilistica della modalità di rappresentazione scelta, una maturazione evidente, importante e risolutiva di un “perfezionamento” della forma oltre che dei contenuti, che è con tutta evidenza un effettivo ed fondamentale punto di arrivo.

Tino Ranieri lo definì a suo tempo, in una scheda per il Cineclub “Primi Piani” di Firenze, un film a pareti lisce, perché ha abbandonato le ultime velleità di abbellimento e incorniciatura: è se stesso, sfrondato  di ogni esteriorità e di ogni emblematicità. Deve mostrare e parlare, e poco importa allora  se a volte i personaggi si  immobilizzano sullo schermo: sono i fatti e i ricordi che viaggiano invece violentemente avanti e indietro per diventare a loro volta e a seconda delle situazioni, la loro buona o cattiva coscienza. E il rumore del dibattito che ne deriva, della disputa, risuona ben forte, come appunto tra le lisce pareti di un pozzo profondo.

Andando a ritroso nella filmografia del regista, credo che la “chiusura” claustrofobica in uno spazio angusto (vera o simbolica), sia stata in effetti un “punto” ricorrente  frequentato con una certa assiduità, e già chiaramente presente in uno dei i primi titoli della sua produzione, Életjel (conosciuto da noi come Segno di vita, ma anche come Quattordici vite in pericolo) che narrava appunto al storia di quattordici minatori isolati sotto terra in seguito a un incidente durante gli scavi.

Una piccola comunità alla prova è quindi quasi sempre il fulcro centrale delle sue opere: gli uomini i “bisogni” e gli aiuti, dove però sono ancora più importanti di quelli che arrivano da fuori, quelli che ciascuno può trovare attingendo alle proprie risorse  e alla propria interna consapevolezza, sono gli elementi che spesso animano dialetticamente – e conflittualmente - le sue storie.

Ciò accadeva anche nel già citato Két félidö a pokolban ( Due tempi all’inferno), storia degli undici giocatori di calcio provenienti da squadre famose che gli aguzzini tedeschi  racimolano frettolosamente nelle baracche di un campo di concentramento in cui sono stati rinchiusi per le leggi razziali, per organizzare un incontro sportivo in occasione del compleanno di Hitler, che si svolgerà poi praticamente trai fili spinati  per trasformarsi fatalmente in uno scontro della ragione contro la violenza (ripresa come già detto, da un episodio veramente accaduto: Fábri sembra prediligere spesso il recupero di queste cronache un po’ marginali al limite del verosimile, per cui non si sa mai con esattezza dove la ricostruzione dal vero finisce e dove invece inizia la mediazione del narratore, ed è appunto questa posizione intermedia, sfumata, che il regista sembra voler salvaguardare, quasi come se intendesse farla diventare un ulteriore stimolo per lo spettatore che in tal modo sarà probabilmente indotto a sua volta a farsi delle domande, ad approfondire meglio le sue conoscenze viste da entrambi i lati della prospettiva, intesi come quello del ricordo effettivo e quello della “ricostruzione” che è poi sempre dovuto a un intervento “esterno” - ruolo che in Venti ore è attribuito al giornalista personale, deduttivo e persino un pò “speculativo” a volte, sull’effettivo significato delle cose).

Fábri sembra quasi  voler così  evidenziare (affinché anche lo spettatore possa appropriarsi di analoga consapevolezza), che la “quantità della Storia” (quella con la lettera maiuscola) è comunque racchiusa anche dentro ciascun individuo “apparentemente senza storia”, si rappresenta attraverso le sue azioni e in come si rapporta con ciò che gli accade intorno (e questo al di fuori della banale allegoria della  retorica della commozione).

Può darsi che una frangia di un compiacimento un po’ “autoriale” resista ancora in Hannibál tanár (Il professor Annibale), universalmente considerato uno dei migliori esempi delle insolite capacità e della bravura del regista (premiato con il massimo riconoscimento al festival di Karlovy Vary), ma tale compiacimento è già completamente assente  in Nappali sötéség (Tenebre di giorno), titolo immediatamente precedente a  Venti ore, e questo nonostante i rischi del “romanzesco” che erano fortemente presenti nella vicenda (la storia di una ragazza che, davanti a un tribunale fascista, mantiene il silenzio su un involontario scambio di documenti di identità e “accetta” per questo di farsi condannare a morte al posto di una militante comunista che è poi la figlia dell’uomo che lei ama) e che al di la delle melodrammatiche fosche tinte della vicenda, si  raccomanda e si impone soprattutto per lo speciale  stile narrativo adottato,  che in molti momenti anticipa e “preannuncia” quello utilizzato proprio in Venti ore, nella frammentazione degli avvenimenti e nel suo procedere a ritroso (una modalità non usata però in questo caso con la padronanza assoluta con cui viene invece impiegata in Venti ore, dove non ci troviamo più di fronte  a semplici flashback, ma bensì a una “resnaniana”  ricomposizione delle memorie umane, e a una autentica analisi delle suggestioni del ricordo, quasi come in fecondo dialogo fra l’oggettivo e il soggettivo).

Il mondo contadino investigato da Fábri  in Venti ore  rientra a sua volta, sotto il profilo ideologico e psicologico,  dentro i confini ben precisi  di una realtà geografica perfettamente circostanziata, riconoscibilissima e per questo particolarmente concreta e coinvolgente. Si sa  che la campagna e i suoi problemi giocano del resto  un ruolo importantissimo nell’intera cinematografia “del disgelo” ungherese (quella per intendersi, immediatamente successiva agli anni della nazionalizzazione dell’industria corrispondente avvenuta  nel 1948, che aveva tarpato ogni velleità non in linea col sistema e con le ideologie) per farne uno specchio fedele degli eventi nazionali: teatro e fonte di reiterate tragedie storiche, di invasioni e di oppressioni, di dispositivi insomma secolari di sopraffazione, la terra diventa la testimone più diretta e attendibile dei problemi della propria gente e mette in luce le cause storico sociali  degli accadimenti esemplificati nella narrazione.

Venti ore è  - in questo senso - visibilmente un film preparato con meticolosità  e organizzato a lungo anche sulla carta, prima di affrontarlo con le immagini.

Il fatto che derivi da un testo preesistente non impedisce infatti a Fábri  e al suo sceneggiatore Miklós Köllö di ricostruire le cose seguendo appunto un piano narrativo autonomo e pazientemente elaborato, particolarmente indicato per i mezzi espressivi suggeriti dallo schermo.

Lo esige la vastità dei problemi messi in campo, e anche il particolare impianto spaziale/temporale che il regista ha inteso conferirgli:  per  conservargli  queste peculiarità così ampie e molteplici, occorre infatti  che prospettive, coincidenze e alternanze, assumano nel corso del film un senso e un valore il più esplicito possibile (quasi emblematico a volte), diventino in qualche modo esse stesse  “personaggi” realisticamente concreti che possano integrarsi perfettamente con le figure effettivamente “fisiche” della vicenda che Fábri ci fa incontrare, dalle quali è accuratamente bandito  qualsiasi  suggestione romanzesca o romanticheggiante. Esse assumono così la loro  massima importanza, si caratterizzano e si qualificano, soprattutto nel riflesso delle azioni compiute, in una serie di  rapporti antecedenti o conseguenti che si riflettono sul presente, come se il regista  le presentasse sullo schermo un po’ prima o un po’ dopo che si verifichino davvero i fatti effettivamente importanti della storia , quelli che traumatizzano e possono cambiare anche la vita. E’ sempre dunque la loro memoria a integrare gli avvenimenti reali, che di per sé, in quanto tali, se presi e letti al di fuori di questo contesto, diventerebbero meno significativi (e soprattutto “significanti”).

E questa   è certamente la caratteristica più “eccitante” (passatemi il concetto) del film, quella cioè che gli conferisce respiro e “innovazione” fino a sollevarlo davvero sul piano e al rango del grande cinema internazionale di quel periodo, in ragione della forza della fantasia che esprime, del vigore dei contenuti, della straordinaria compattezza dello stile. Ed è ancora questa caratteristica  a far sì che Venti ore  divenga per le qualità intrinseche dell’opera cinematografica (ossia indipendentemente dalla fonte letteraria da cui deriva), uno dei più precisi e intensi saggi sulla storia di quegli anni che siano passati sul grande schermo, per altro con l’assoluto coraggio della verità  e quindi senza che niente, neanche i risvolti più sgradevoli, siano stati omessi o dimenticati, nonostante le polemiche che potevano scaturire da una lettura  così “concretamente” sofferta da rasentare l’autocritica.

La narrazione a incastri, altrove pleonastica o “pericolosamente intellettualistica”, diventa qui il mezzo necessario per evitare il pericolo  (sempre in agguato, quando si affrontano simili argomenti) della tradizionale “parabola” drammaticizzato di un “martirio” con tutte le sue ovvie contrapposizioni dialettiche.

Venti ore – lo ripeto – pur nascendo da un contrasto ideologico durissimo, che scava in tutto il ventennio socialista ungherese, non è un film in due tempi (il prima e il dopo) o in due spazi: in esso – un po’ come accade nel teatro classico, se vogliamo, o meglio ancora nel saggio storico – nulla è scissione, ma bensì fusione e “compresenza” e questo impedisce persino l’insorgere di un sospetto latente che si tratti in pratica sempre e solo di una “cronaca” drammatica pur rinnovata nella forma, come qualcuno ha a suo tempo insinuato (continuare semplicemente a supporlo ancora oggi, significherebbe fare un torto gravissimo all’opera e al regista perché  niente è davvero più errato e lontano dalla realtà di questa ipotesi: rivedendolo in prospettiva, mi sembra evidente e lampante  che il film non ha davvero nulla che consenta di relegarlo ancora  nel limbo un po’ usurato dei “fatti di cronaca”, poiché sociologia e filosofia  lo sostengono ben al di là della veloce curiosità giornalistica).

Della cronaca  possiede semmai soltanto l’elemento esteriore, apparente, del “realismo” con cui affronta i fatti, ma è già un realismo sublimato,  trasfigurato nelle coscienze, riletto e interpretato politicamente. Torna allora in mente Brecht  con i suoi precetti fondamentali. Non va dimenticato infatti che Fábri  è stato anche “fattivo” uomo di teatro. Dalla lezione di Brecht, egli ha dunque certamente portato sullo schermo il concetto  basilare che la tensione (spannung) non deve indirizzarsi (ed esplodere) verso la  conclusione della storia, ma  sorgere e svilupparsi “per tutto il corso della storia”, rimanere alta sempre e comunque, e questo è ciò che accade appunto in Venti ore,  dove il dibattito dei personaggi è ininterrottamente attivo e non viene convogliato  verso una esplosione pilotata in direzione di un finale da “drammaticizzare”, ma opera invece, per così dire, circolarmente e comincia e finisce - perfettamente compiuto, cosi come la tensione che si crea - all’interno di ogni singola sequenza, per come è stata ripresa e montata sullo schermo. Ciò conferma una volta di più l’imprescindibilità anche dei salti nel tempo che si susseguono (che hanno fatto parlare Graham Petrie di  imitazione del cinema della memoria): segno evidente che Fábri non ha scelto una formula espressiva fra le tante (aderendo ad una innovazione di facciata in  forte espansione nel periodo), ma si è attenuto all’unica possibile, la sola che potesse  assicurargli la necessaria “simmetria” di cui aveva bisogno il suo disegno registico.

Non è allora certamente azzardato dire che se a qualcuno possiamo paragonare il Fábri di  questo film, l’unico nome che può essere fatto, è proprio quello di Resnais (il primo e il solo che all’epoca aveva realizzato qualcosa di analogo), anche se Fábri  ha certamente una minore “prodigalità figurativa” e soprattutto una più trattenuta esasperazione sensoria dei sentimenti che vengono espressi in maniera maggiormente contenuta). Fábri, pur utilizzando lo stesso procedimento espressivo, è in effetti persino opposto al Resnais aulicamente affascinante e fortemente empatico  (parlo ovviamente di quello di Hiroshima mon amour, di Marienbad, di Muriel o di La guerra è finita) perché, al contrario del Maestro francese, è più  intransigentemente manicheo e robusto e soprattutto meno enfatico, oltre che molto più “francescano” nell’impiego dei mezzi tecnici disponibili. Quindi l’accostamento riguarda soprattutto l’evidenza  che come nei film di Resnais, anche in Venti ore gli “scarti” del tempo rispondono allo stesso tipo di “necessità mnemonica”, alla volontà di compenetrazione dei vari piani narrativi fra presente e passato, allo stesso bisogno di far combaciare  il mondo delle reminiscenze del ricordo con il presente ma per proiettarlo nel futuro, per portare così avanti in parallelo anche una battaglia delle idee (sul piano ideologico mi riferisco allora soprattutto a Hiroshima, Muriel e a La guerra è finita, poiché Marienbad sotto questo profilo non presenta analoghe prerogative).

E’  in tale prospettiva forse  che deve essere allora  considerato anche il parlato del film, criticato a suo tempo  (a mio avviso ingiustamente) da più parti per un preteso “eccesso di dialogo” che faceva troppo romanzo o teatro. E’ una valutazione che trovo adesso quantomeno antiquata (anche se il passare del tempo ha inciso più negativamente proprio su questo versante). Il parlato  - pur con la sua evidente “datazione” - si integra perfettamente con le immagini, e non ha niente della verbosità pomposa  della letterarietà:  è  l’altro eccellente mezzo della comunicazione utilizzato dal regista, quello che, oltre a facilitare  l’invito al ragionamento,  contribuisce a chiarire meglio ciò che mostrano le immagini, ed ha per questo pieno diritto non solo di cittadinanza, ma anche di riconoscimento artistico della funzione. Cinema di “eloquenza” allora? Può darsi, ma certamente e in ogni caso, moto lontano dalla retorica.

Quale è l’argomento di Venti ore? Come abbiamo già accennato e visto, si tratta di un “affare di villaggio”, una introspezione dentro un mondo corroso dalle reciproche ipocrisie  e dalle contorte diffidenze , ma che rivela sorprendentemente anche una ombrosa solidarietà mai venuta meno, nemmeno al culmine estremo delle discordie, o dopo che si è consumata la tragedia.

La revisione “storica” è completa ed esaustiva, perché parte  dal memorabile 1945 per svilupparsi nell’arco complessivo dei successivi venti anni, e nulla viene risparmiato nelle testimonianze sui fatti che si sono susseguiti in Ungheria in quel periodo per molti versi “crudele”, ma anche portatore di importanti emancipazioni: le diverse riforme agrarie, lo stalinismo imperante  e il regime di Matyas Rákosi, la burocratizzazione  e l’iniziativa contadina, il ritorno degli epurati  e i giorni terribili  del ’56, la pacificazione e le rappresaglie:  tutto questo c’è dentro al film, convive e palpita con le vicende giornaliere di una “semplice” storia di paese.

Forse per uno spettatore italiano della contemporaneità sarà un po’ difficile inquadrare “perfettamente” tutti gli avvenimenti, restituire loro il necessario peso e importanza, riconsiderarli nella giusta prospettiva (per esempio le “sottili” ragioni diversificanti di pensiero e di adesione all’idea, che  riguardano i dissensi di indirizzo “ideologico”  che sono la causa primaria degli irrigidimenti progressivi dei quattro amici della cooperativa, e che derivano anche dalle interferenze politiche esterne che condizionarono fortemente persino il partito contadino, pur presente in forza in seno al governo ungherese, con le crisi elettorali del ’47 e del ’49  rintracciabili proprio nelle manchevolezze della politica agraria degli anni rakosiani “chiaramente” denunciate e ammesse), ma forse può aiutare  meglio a comprendere e a immedesimarsi, la consapevolezza e il “giudizio” storico” ormai definitivamente emesso su quegli anni e quegli avvenimenti nel loro complesso, al di là delle sfumature “interne”.

E allora la fluttuazione degli accadimenti in Venti ore può  essere anche vista in una prospettiva più ampia e letta in chiave europea,  o meglio all’interno  e nel quadro delle grandi contraddizioni sociali che scaturirono dopo la guerra in tutte le nazioni del vecchio continente.

E i quattro compagni su cui si concentra l’inchiesta, sono in questo senso particolarmente emblematici: essi sono stati uomini di scelta, e quindi definibili forse “ eroi ideologici del comportamento”, persone che poi imparano a leggere e interpretare i fatti in modi fra loro  non omologati che li portano a intraprendere anche strade divergenti. Da amici si “assommavano”, riuscivano perfettamente a rappresentare insieme la coraggiosa forza del movimento, ma quando gli eventi li fanno diventare  nemici tutto si trasforma e si “indebolisce”, fino a creare i presupposti perché qualcosa si trasformi persino in “dramma”. Ma la loro esistenza pur incanalata su percorsi diversi, non cessa mai di essere un fatto “nobilmente politico”, e questo il film lo evidenzia in modo abbastanza chiaro.

C’è in questa straordinaria e compatta opera, un punto fondamentale rappresentato dalla colluttazione fra Jóska e Antal, così furente, inevitabile eppure sbagliata (o forse soltanto “inutile”): non qualcosa  che accade davvero in quel momento, ma la preparazione  a qualcosa che deflagrerà inevitabilmente, perché come ho già osservato, in Venti ore ciò che si vede è sempre un po’ in anticipo o un po’ in ritardo sul “fatto” veramente importante verso cui ci introduce e ci invita a riflettere.

Si può dunque concludere che attraverso la tecnica dell’inchiesta e l’insistente uso del flashback, siamo di fronte a uno dei più onesti esami di coscienza  che il cinema ungherese, e più in generale le cinematografie socialiste, siano riuscite a esprimere compitamente, perché con questo “dramma” il regista coglie davvero nel segno sintetizzando una lunga stagione affollata da errori, menzogne, ingiustizie, ma anche da una grande quantità di energie spese in buona fede, sincera volontà di rinnovamento e onestà personale. E’ in qualche modo da considerare allora anche il film

del compromesso della pacificazione kadariana, perfettamente sintonizzato come è  proprio sul nuovo corso politico inaugurato negli anni ’60 (lo ha affermato a chiare lettere anche il regista quando, presentando il film alla stampa, ha precisato che la pellicola in pratica può essere considerata anche la storia di una guarigione che si opera secondo le sue proprie leggi, e anche in una dimensione più personale e privata dell’uomo, è analogamente fondamentale, poiché  è il film del ritrovato vigore artistico e morale da parte di un cineasta della prima generazione che con quest’opera  che ricostruisce la storia di un paese e delle sue trasformazioni sociali, centrando l’obiettivo sulle sue contraddizioni e sulle degenerazioni staliniane, ha aperto ufficialmente la strada al  nuovo cinema ungherese, particolarmente fecondo in quegli anni).


Zoltán Fábri, senza dubbio uno dei maggiori esponenti del cinema ungherese, nacque a Budapest nel 1917. Studiò pittura all’Accademia di Belle Arti dalla quale uscì diplomato nel 1938. Si iscrisse subito dopo ai corsi di recitazione dell’Accademia d’Arte Drammatica che frequentò per tre anni. Superati gli esami, iniziò la sua attività artistica in qualità di attore  (diventando uno dei più apprezzati interpreti) e di scenografo,  del Teatro Nazionale della sua città. Ancora giovanissimo (appena ventiquattrenne) fu anche intelligente e apprezzato regista teatrale (la messa in scena dell’Enrico IV  gli valse un contratto quadriennale, ben presto però troncato dalla guerra).

Rientrato a Budapest nel 1945, lavorò dapprima al Müvész Szinház, il teatro del suo amico e compagno d’arte  Zoltán Várkonyi, divenuto in seguito regista di valore. Più tardi fu incaricato  della direzione del Teatro dei Giovani Pionieri di Budapest  per il quale  recitò, diresse e curò le scenografie. Fu in quell’epoca  che cominciò ad interessarsi di cinema, collaborando alla stesura di qualche sceneggiatura.

Nel 1950, allorché la produzione cinematografica ungherese venne davvero riorganizzata su basi nazionali unificate, gli fu proposto di entrare a far parte degli Studi Hunnia. Accettò di buon grado, e in breve tempo ottenne la direzione artistica degli Stabilimenti. Passò in tal modo alla regia cinematografica, esordendo nel 1952 con Vihal (La tempesta). Autore raffinato e sottilmente critico, si mise internazionalmente in luce nel 1955 con Körhinta (Carosello), e successivamente – nel 1956 a Karlovy Vary -, vinse il massimo premio di quel festival con Hannibál tanár ur (Il professor Annibale), una forte tragicommedia sugli anni del fascismo. Confermerà le sue doti di autore caratterizzate da un forte impegno morale, in tutte le altre successive  pellicole (tra cui la migliore è forse Két félidö a pokolban (Due tempi all'inferno), sulle vicende di un lager nazista, e forse uno dei più stimolanti film del”disgelo”). Ha dato però il suo più interessante e acclamato esito proprio con il film Venti ore con cui ha fatto incetta di premi e riconoscimenti internazionali. Tra gli altri suoi film vanno ricordati per lo meno (cito per facilità di comprensione solo la traduzione italiana dei titoli): Quattordici vite salvate (1954), Anna (1958), Tenebre di giorno (1963), I ragazzi della via Paál (1968), Giorno più, giorno meno (1972), I magiari (1980), Requiem (1982). Spesso attivo anche in televisione (soprattutto negli anni ’60 ha diretto per la rete una importante serie di programmi a carattere storico-sociale rievocanti  la Comune ungherese del 1919 di Béla K’un) è morto il 23 agosto del 1994.


 


 

Sulla trama

Un giornalista si reca  in un piccolo villaggio per intervistare i suoi abitanti e realizzare un’inchiesta. Nel corso di 20 ore egli ripercorre così i precedenti 20 anni di storia ungherese, dalla liberazione, alla metà degli anni ’60. In un primo tempo gli si profila davanti un panorama di tranquilla serenità, come se la vita nel villaggio scorresse da sempre senza scosse. Poi, a poco a poco, emerge un passato pieno di contrasti e di drammi umani sullo sfondo di una società in rapida trasformazione. Protagonisti di queste vicende sono soprattutto 4 amici: Antal Balogh, Benjámin Kocsis, Sándor Varga e Jóska, detto “il Presidente”, compagni di passate miserie e di battaglie comuni, fondamentalmente onesti e convinti sostenitori dell’idea socialista, contadini comunisti, protagonisti di quella stagione di cambiamenti (la collettivizzazione forzata, l’organizzazione cooperativistica)  di volta in volta persecutori o vittime.
Lentamente però i loro buoni rapporti – complice anche la diversità dei rispettivi caratteri – cominceranno a incrinarsi, fino a guastarsi del tutto. Il carattere più “violento e fanatico” nel nuovo contesto di contrapposizione,  si  paleserà proprio nella figura di Varga, nel frattempo assurto al ruolo di segretario del partito, uno stalinista convinto, che nella tempesta del ’56  si troverà ad uccidere  il suo antico “amico” Benjámin Kocsis, che pure era sempre stato, fra i quattro, il più duttile.
Saranno alla fine gli altri due superstiti del gruppo, col loro bagaglio di  amarezza e di rimorsi, ma di nuovo decisi e “uniti,  a ricercare  comunque un modus vivendi di tolleranza, o meglio a ricercare la strada verso un futuro di pacificazione, anche a costo di qualche compromesso.

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