Regia di Julian Richards vedi scheda film
Il sadismo dell'immagine, la freddezza della testimonianza visiva, come quando il pirandelliano Serafino Gubbio girava la rotella della sua vecchia cinepresa di fronte all'attore sbranato dalla tigre. C'è morbosità al cinema, e questo la sapevamo, ma forse mai ci è stato detto con tanta partecipazione, tanta sottile ironia e tanta incisività. Il gioco horror metacinematografico di Julian Richards è il tentativo divertito di coinvolgere lo spettatore nella psicopatologia di un uomo semplicemente nullafacente, che per l'interesse nei confronti del rapporto fra realtà e finzione cinematografica riprende i suoi omicidi, gettando una misteriosa e non sovrannaturale maledizione sul film stesso che sta dirigendo, uccidendo chiunque lo noleggi. Ci sono echi del Cameraman e l'assassino, di The Ring addirittura, in una versione molto più profana, c'è molta carne cinematografica al fuoco (il riferimento alla scena di cannibalismo è puramente casuale..!), carne al fuoco che però grazie al carisma malato del protagonista Kevin Howarth riesce a non prendersi mai del tutto sul serio né ridicolizzarsi, secondo un equilibrio che un film talmente strampalato meritava, e che certo non ci si aspetta. Nel 2003 non era ancora partita (del tutto, come oggi, almeno) la mania dei POV e del mockumentary, e questo aiuta il film a privarsi di eventuali cliché. Eppure non li crea nemmeno: è quel genere di horror/pseudo-documentario che avrà la sua più notevole copia in The Poughkeepsie Tapes. In ogni caso un divertimento per gli appassionati, soprattutto nel monologo finale, in cui il voyeurismo dello spettatore, sottoposto alla visione di violenza e quant'altro (una visione a cui lo spettatore stesso si è volontariamente sottoposto), dovrà fare i conti direttamente con la paura. Certo, Richards si dilunga un po' troppo nella vita privata del protagonista, nel tentativo esasperato di rendere il film un trattato sociologico sulla follia del Male (e qui si azzarda un po' troppo), ma le parti realmente interessanti sono le scene di violenza (che comunque fanno poca impressione) e le scene in cui il protagonista si confronta con il suo cameraman, che siamo un po' noi, che vediamo la realtà reale e la crediamo distorta da un'immagine fin troppo fedele. Il cinema nella sua versione più eversiva, grossolana magari, ma efficace come tutte le cose semplici.
'Why are you still watching?'
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