Regia di Paddy Considine vedi scheda film
Tyrannosaur è il nomignolo che Joseph aveva scherzosamente affibbiato alla moglie Pauline per via della grazia con cui spostava il suo corpo importante, generando vibrazioni del suolo che ricordavano quelle prodotte dal bestione che imperversava in Jurassic Park. Joseph l'ha amata, e a un lustro dalla sua morte è un sessantenne solo e allo sbando che passa il tempo ad alcolizzarsi, carico d'un'aggressività che non riesce più a contenere. Per uscire di senno gli basta una scommessa persa, come quella che una notte lo porta in un accesso d'ira ad ammazzare inavvertitamente - con un calcio - il proprio cane, e, dopo averlo seppellito nel giardino di casa all'alba, inaugurare il giorno nuovo cercando altre rogne: prima provocando ed affrontando tre giovani giocatori di biliardo in un pub, poi sfasciando con un sasso la vetrina di un negozietto dal quale s'era fatto bandire, trovando temporaneamente riparo dalla prevedibile rappresaglia riparando in una bottega, imboscato fra abiti appesi.
Hannah, la proprietaria, avverte immediatamente la profondità della sua disperazione e gli offre il proprio conforto, producendosi in una lunga e sentita preghiera per chiedere al cielo l'aiuto di cui lui sembra aver bisogno, ma riceve in cambio null'altro che l'ennesima razione di rabbia, condensata in un fiume di parole al veleno. Caritatevole e rassicurante per indole, la donna è però assai meno serena di quanto ostenti: di casa in uno dei quartieri più agiati di Londra ma sposata ad un instabile e sadico maschio alfa che la maltratta e le nega la gioia di divenire madre, devia verso la dedizione a Dio e al prossimo il pressante carico della propria frustrazione. Perché se il proletario Joseph è nel pieno di un abisso privato del quale non riesce a percepire la fine, la benestante Hannah è sull'orlo del proprio. Appoggiandosi l'uno all'altra ma potendo contare solamente su sé stessi, i due si trovano ad incrociare la strada nei rispettivi percorsi, con lontano il miraggio di una qualche riabilitazione o un riscatto.
Già attore giovane (relativamente, classe 1974) e affidabile, noto dagli albori del nuovo millennio per le proficue collaborazioni con registi come il connazionale Shane Meadows (A room for Romeo Brass, Dead Man's Shoes), l'irlandese Jim Sheridan (In America) e lo statunitense Ron Howard (Cinderella Man), l'inglese Paddy Considine passa dall'altra parte della macchina da presa per esordire sulla lunga distanza come autore nel 2011 (su quella breve lo aveva già fatto nel 2007), traducendo in immagini una sceneggiatura scritta interamente di proprio pugno: il risultato è Tyrannosaur, un film duro e scuro sulla solitudine e sul senso di colpa.
Nella tradizione di una nazione che, da Ken Loach in poi, ha fatto del cinema d'impegno civile un genere vero e proprio, con dei codici ben definiti e la propensione fisiologica a farsi - meritoriamente - testimone e megafono delle istanze degli ultimi della classe, Tyrannosaur si inserisce prendendo le mosse dalla medesima sensibilità verso il disagio ma aggiornandola ad un'epoca nella quale il male di vivere ha sempre più un carattere endemico e generalizzato: senza la pretesa di inventare nulla, anzi scegliendo una storia dallo schema sostanzialmente semplice, Considine continua a raccontare la derelizione partendo dagli angoli più squallidi della periferia di Londra, ma anziché cristallizzare il discorso amplia il raggio d'azione, concentrandosi sull'interiorità dei personaggi, sul loro lato più genuinamente umano, sul dolore e sul senso di inadeguatezza che affligge chiunque trovi dentro di sé il proprio peggior nemico, senza dividere, ma stavolta paradossalmente avvicinando tra loro perdenti provenienti da ranghi sociali diversi.
Presentato al Sundance Film Festival nel 2011, passato nello stesso anno a Roma e premiato in ogni dove, Tyrannosaur è scritto e diretto magistralmente da un 'semplice' attore alla prima regia al quale ora è lecito chiedere il bis, ché sembra un veterano tanta è la maestria con cui alimenta la tensione, alternando improvvisi strappi di violenza esibita a fasi in cui si limita a suggerirla tenendola fuori campo, che non va mai fuori misura e chiede ai suoi attori una partecipazione non indifferente: e se Peter Mullan è al solito monumentale, capace di costruire attorno al proprio rude accento scozzese un Joseph sofferente, schietto e scevro da sovrastrutture che pare la versione aggiornata (con qualche grammo di follia in più) del Joe di My name is Joe di Loach, le sorprese arrivano dalle performance dei comprimari, con Olivia Colman commovente e generosa nel ruolo della vulnerabile e repressa Hannah, ed Eddie Marsan bravo a conferire al subdolo marito James un inquietante mix di viscidume e devianza.
Contrappuntato dallo score malinconico di Dan Barek e Chris Baldwin e chiuso dalla struggente We Were Wasted dei The Leisure Society, Tyrannosaur è un film denso e significativo sui patimenti di anime alla ricerca di una redenzione che non può non passare attraverso l'espiazione, un film delicato e toccante che sorprende, annichilisce e scava a fondo fino a disporre delle corde più intime dello spettatore, in grado di riempire il cuore con un semplice abbraccio e poi di strizzarlo con un pianto a dirotto senza mai - nemmeno per un momento - suonare eccessivo o patetico. Asciutto, spietato, bellissimo.
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