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Happy Happy

Regia di Anne Sewitsky vedi scheda film

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La recensione su Happy Happy

di OGM
8 stelle

Gli altri ci servono, ma non per essere felici.  Ci sono utili soltanto per poter giocare un po’ con i nostri sentimenti, trovare conforto e magari sentirci importanti. Il matrimonio è la frustrazione di un desiderio perpetuata dall’abitudine. Così, almeno, è per Elisabeth e Sigve, come per Kaja ed Eirik. I giorni, per loro, sono scanditi da un ritmo uniforme, che rinnova quotidianamente il ricordo di ciò che, purtroppo, continua a mancare, e che probabilmente, è destinato a mancare per sempre. Come un figlio nato dalle viscere, un’intimità condivisa, o l’opportunità di coltivare le proprie passioni. I quattro protagonisti si ritrovano a doversi procurare clandestinamente la soddisfazione dei propri bisogni inappagati. E la strada che porta ad una temporanea gratificazione passa, inevitabilmente, attraverso la sofferenza imposta all’oggetto del loro trastullo, o alla vittima del loro tradimento. Il dolore non si cura, si può soltanto alleviarlo scaricandolo sul prossimo. Il piccolo Theodor sfoga la propria solitudine di figlio unico su Noa, il bambino di colore che è il figlio adottivo dei vicini. Lo costringe a fargli da schiavo, si diverte ad imporgli compiti faticosi ed umilianti, a prendere in giro le usanze africane, a picchiarlo. Come gli adulti che lo circondano, Theodor inventa per sé un ruolo dominante, che lo metta nella posizione di dirigere le danze, per il semplice gusto di comandare, e crearsi, in tal modo, l’illusione di poter avere tutto ciò che vuole. Kaja estorce a Sigve, l’uomo della sua amica,  il sesso che il suo compagno Eirik da lungo tempo le nega. Elisabeth reagisce alla mortificazione con una vendetta, che non le dà alcuna gioia. Eirik, a sua volta, fa di tutto per riuscire ad assecondare le proprie tendenze omosessuali, però fallisce. Anche in questa miserevole partita a base di squallidi ripieghi e  vili ripicche ci sono i vincitori e i vinti. Quando  due coppie abitano una accanto all’altra,  in mezzo alla desolazione della campagna norvegese, il confronto è inevitabile, e la rivalità ne è l’immediata conseguenza. La competizione offre l’occasione per ottenere una rivalsa,  per mostrarsi più capaci nel raggiungere i propri obiettivi, per sottrarre terreno all’avversario affermando la propria superiorità razziale, biologica, fisica, psicologica. Uno scopo non secondario di questa operazione è ferire chi ci ha delusi, non riconoscendo adeguatamente il nostro valore, trascurandoci, o addirittura disprezzandoci. Questo è anche un modo per evitare che il nostro diletto venga rovinato dal peso della coscienza: scaricare la colpa sull’altro è un pretesto che a priori ci giustifica e a posteriori ci assolve. Eirik accusa Kaja di essere la causa della sua disaffezione, e lo stesso fa Sigve con Elisabeth:  un uomo è costretto a rivolgersi altrove, se la sua donna non ha cura di sé e non si sa controllare, oppure  se è troppo fredda e pedante.  Questo, in realtà, non è un motivo per costruire qualcosa di alternativo, bensì la scusa per assecondare un impulso. Sigve ed Eirik, infatti, non fanno altro che lasciarsi trascinare in ciò che, rispettivamente, Kaja ed Elisabeth hanno deciso per loro: nel primo caso, un’avventura che ridoni sicurezza ad una moglie messa da parte, nel secondo caso, la dimostrazione, resa da una moglie tradita, di non essere da meno nel conquistare e sedurre. Ognuno annaspa, intorno a sé, nell’affannoso tentativo di lasciare il segno della propria presenza. Una traccia labile ma evidente, come un’impronta rimasta impressa nella neve. Non potendo distinguersi per ciò che si è, si cerca di farsi notare per ciò che si osa fare. È la manifestazione di un narcisismo spavaldo e disperato, che la regista Anne Sewitsky mette in scena con i toni dissonanti di un’energia traboccante e disordinata, che strepita maldestramente, ed invano, per sottrarsi al gelo dell’inverno. Il grido si trasforma in una melodia cupa e acerba, come il suono di un  gospel, il cui accento grave rimane a lungo sospeso nell’aria, prima di cadere a terra come una certezza che tragicamente ci sfugge. In Happy, Happy si canta, e spesso, intonando i versi dei testi sacri, perché la verità è musica che impregna tutta l’atmosfera, tanto che basta sporgere una mano per afferrarla. Il nordico microcosmo di questa storia è intriso della consapevolezza che tutto è sbagliato, e fondamentalmente irrimediabile. Eppure i protagonisti di questo errore continuano a rimescolare le note, fino a privarle del loro significato, fingendo che siano solo la dolce melodia d’accompagnamento delle loro straordinarie imprese.  

 

Questo film è stato il candidato norvegese al premio Oscar 2012 per il miglior film straniero.

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