Regia di David Cronenberg vedi scheda film
Poco capito e sottovalutato, è per me un capolavoro di contenuto e forma che in maniera diversa dal passato è ancora concentrato sul processo di mutazione ma dove le dinamiche dello scontro sono affidate a un torrente inarrestabile di parole in movimento che originano un dialogo fittissimo pieno di coinvolgenti sollecitazioni.
A Dangerous Method, ovvero la degenerazione autodistruttiva dell’istinto sessuale: ecco questo potrebbe essere un ottimo punto di partenza per parlare di una pellicola che ha nuovamente al centro il tema delle “contaminazioni”, che non riguardano più però solo la carne che a volte si fa macchina e viceversa, né trovano origine nelle turbe dell’intelletto che si ribaltano sul corpo come accadeva per esempio in Spider, ma si scoprono invece come infestanti gramigne profondamente radicate nell’anima, dentro la coscienza e nella storia. Questa volta infatti la mutazione – di nuovo “schizofrenica” nella sua lussureggiante esposizione visiva fino dal prologo, con una carrozza che corre come priva di freni, trainata da una terna di neri cavalli che sembrano quasi imbizzarriti, e al suo interno rinserra come una prigioniera la Spielrein che in preda ad una crisi isterica si dimena nello spazio angusto dell’abitacolo, trattenuta a stento dal padre, quasi che si trattasse dell’incipit di un film horror - ha un’origine ancora più angosciante e dolorosa, perché è partorita proprio dalla traccia indelebile della mostruosità cresciuta dentro l’essere umano e i territori fecondi che sanno bene come farla proliferare, fino a diventare parte centrale e inscindibile del vissuto di ogni individuo pensante e razionale.
Ma se le tracce di continuità certa con il passato artistico del regista, forse si riescono a intravedere soltanto (e parzialmente) nella straordinaria resa interpretativo/visiva di un’eccellente Keira Knightley (da troppi ingiustamente sbeffeggiata) nei panni e nel corpo spigoloso di quella Spielrein semi-indemoniata, il cui volto plasmatico - sfidando e dribblando il pericolo del ridicolo sempre in agguato di fronte a simili performances volutamente estremizzate fino all’eccesso - si deforma in maniera davvero inquietante aderendo con coraggio e duttilmente al “quadro” disegnato da regista soprattutto nel corso degli orgasmi che Jung le procura con la violenza, per il resto questa volta si opta invece per una metafora invero più diretta e lineare (meno “fenomenologica”) nella forma scelta per la mediazione in immagini di una vicenda che non riguarda più (o non soltanto) i fantasmi interiori che ciascuno coltiva nascosti nell’inconscio, ma coinvolge un cambiamento epocale del pensiero e un differente modo di leggere le cose, permesso proprio da questo essere riusciti a “squarciare” persino le coscienze che rende il tutto ancora più tragicamente definitivo perché non lascia scampo, visto che con l’avvento della psicanalisi, probabilmente non c’è veramente più niente dietro cui ci si può nascondere o camuffare.
Poco capito e incredibilmente sottovalutato, A Dangerous Method (e corro volentieri il rischio di essere in minoranza con questa affermazione),è dunque a mio avviso un capolavoro di contenuto e forma, che si potrebbe definire come il trionfo dell’ambivalenza che si ritrova sempre nei processi mentali dell’individuo, ne è parte integrante e davvero inscindibile.
Un cinema che si affranca dunque dal concentrarsi sulla mostruosità del corpo per approcciarsi a un meccanismo in superficie molto più classico (quasi conciliante) ma in realtà ancora e sempre fortemente interessato alla messa in scena del processo di mutazione, dove però le dinamiche dello scontro sono affidate a un torrente inarrestabile di frasi e di “concetti” in movimento dentro a un dialogo fittissimo e pieno di sollecitazioni fortemente coinvolgenti.
Diario di una segreta simmetria è il titolo dell’interessante, fondamentale libro scritto dallo psicoanalista Aldo Carotenuto che ha divulgato ormai qualche anno fa, l’intrigante relazione intellettuale e non solo, intercorsa tra Sabina Spielrein e i due padri della psicoanalisi, dentro a un affascinante triangolo già corteggiato più volte e con alterne fortune, dal cinema (Lizzani e soprattutto Faenza ) dal quale anche Cronenberg ha certamente tratto fondamentale materia per il film, insieme al testo teatrale The Talking Cure di Christopher Hampton (autore anche della sceneggiatura) che ha indubbiamente tenuto conto nella sua stesura dei molti documenti storici a disposizione, ma concedendosi però anche molti voli di fantasia, necessari per realizzare un’opera decisamente atipica nella straordinaria filmografia del regista (soprattutto perché sposta un baricentro che si pensava ormai consolidato, e si “contamina” molto più semplicemente attraverso le parole), ma non per questo meno disturbante, anche quando rinuncia scientemente alle architetture mutanti che in apparenza potevano sembrare ideali per rappresentare la storia così ambigua, morbosa e incandescente di una vera e propria “partita a tre”, quella in cui Sabrina potrebbe risultare almeno sulla carta, una semplice pedina del gioco tra i due rivali, Sigmund Freud e Carl Gustav Jung, ma che poi alla fine è invece il vero e proprio deux ex machina del conflitto e del contendere – una mina vagante con la miccia innestata e pronta a esplodere dentro un universo accademico ben codificato nei suoi ruoli definiti con assoluta precisione che rischia di frantumarsi nell’urto, ma anche un personaggio realisticamente concreto e plausibile che possiede una forza eversiva davvero sorprendente, persino inusuale se si considera l’epoca in cui è vissuta, e che non si lascia mai schiacciare, nemmeno nei momenti delle crisi dissociative più profonde, da questi due monumenti della cultura del ‘900, che si trovano così a sperimentare il nuovissimo potere della manipolazione (la psicoanalisi appunto) tra loro e su di lei.
Se non si sapesse che è di Cronenberg non piacerebbe a nessuno questo film o - viceversa - se non fosse di Cronenberg non ci piacerebbe così tanto: erano le frasi che più frequentemente rimbalzavano fra detrattori e sostenitori, all’indomani della presentazione del film dentro il programma della Mostra del cinema di Venezia dello scorso anno. Sappiamo che i pregiudizi serpeggiavano feroci in quei giorni (avallati per altro dal rifiuto di Cannes che non lo aveva accettato per la sua kermesse sulla Croisette) di fronte a un’opera di derivazione prima romanzesca e poi teatrale “così fredda e glaciale” che parla del passato, novità assoluta ed inconsueta nella filmografia del regista, che appariva come un inciampo – quasi un passo falso - ai più, ma per me sono bastate invece già le prime scene (persino ciò che scorre dietro i titoli di testa) per comprendere che certamente è un “insolito” film in costume (non per nulla è di Cronenberg), ma che - e in un modo o nell’altro almeno di questo dovremmo prenderne atto e farcene una ragione – non è per questo meno feroce e cattivo, solo “diversamente” inquietante, e soprattutto – ed è fondamentale - ugualmente sorprendente nel risultato complessivo che inevitabilmente spiazza e divide per le sue “diversità” molto marcate (ma quando mai il cinema di questo regista ha messo tutti d’accordo?).
Se non fosse di Cronenberg non piacerebbe così tanto –sottolinea con forza anche Roberto Manassero nel suo pezzo pubblicato su Cineforum n° 508 aggiungendo ancora: Appunto. Se non fosse di Cronenberg, sarebbe Prendimi l’anima di Faenza o poco più(e avrebbe allora avuto persino scarso senso riproporre una storia di “passioni” segrete e perverse come questa, letta principalmente come se si trattasse di un melodramma) mentre invece A Dangerous Method (e come non dargli ragione!) è un film brulicante, carico di energia trattenuta, un romanzo realista in bilico sull’abisso che apre alle oscurità della mente e alle tentazioni dell’inconscio. Che racconti le dispute intellettuali e le relazioni contrastate tra gli inventori della psicoanalisi, che esalti la figura di una donna diventata scienziata dopo essere stata ferita dal graffio della malattia, e che a dirigerlo sia il regista della mutazione fisica che perpetua quella psichica, non c’è nulla di inappropriato, ma al contrario, diventa un qualcosa di assolutamente clamoroso nella sua evidenza e inevitabilità (…) perché la mutazione per Cronenberg questa volta è sul corpo stesso del film.
In effetti, sotto l’inappuntabile e apparente compostezza formale di un approccio quasi viscontiano della messa in scena, Cronenberg trasferisce invece in immagini, come meglio non sarebbe stato possibile fare, la trasmettibilità del pensiero alla ricerca delle radici della violenza, adattando la forma alla sostanza in maniera davvero encomiabile.
Un approccio al problema insomma assolutamenteo inusuale il suo, tutto affidato alle tensioni rese più evidenti proprio dall’elemento verbale, perché è proprio con questo (e su questo) che costruisce da par suo un’intricata tela tessuta di emozioni e turbamenti, che conduce alla fine tutti i suoi protagonisti verso un ripensamento della propria funzione, del proprio stesso pensiero, persino delle proprie certezze, considerando (e configurando) quale agente primario di tali mutazioni, proprio il desiderio inteso in tutte le sue forme anche di “dominio” e possesso.
Il grande merito della pellicola consiste comunque anche nell’abilità con la quale viene visualizzato il passaggio capitale da un codice fatto di segni che restituiscono graficamente determinati significati (le lettere che si incrociano, il loro raccontarsi senza perifrasi attraverso il “nero” dell’inchiostro che contamina i fogli di carta della fitta corrispondenza) a un linguaggio altrettanto simbolico ma privo di contenuti semantici inconfutabili aperto cioè all’interpretazione, in bilico sul baratro dell’inconscio (Ivan Moliterni).
Evitando di conseguenza il pericolo di una sovrapposizione dei punti di vista e ricorrendo ad immagini formalmente ineccepibili, quasi piatte nella loro composizione armonica che si potrebbero persino definire “accademiche”, e che finiscono per diventare più disturbanti che mai proprio per questo essere “conformi” nel ritornare indietro nel tempo remoto della storia grazie a una “ricostruzione” anche scenografica inappuntabile, il regista quasi con un crudele piacere, lascia poi i personaggi a navigare sulla superficie apparentemente tranquilla dei loro misteri irrisolti che restano attualissimi, ma con i corpi completamente immersi nel pantano delle pulsioni più nascoste. Un “cortocircuito” fuori sincrono persino dissonante insomma che approcciandosi una volta tanto ad una procedura che è soprattutto mentale e in cui non solo gli incubi, ma anche (e soprattutto) le parole, i pensieri, diventano il centro di un cambiamento irreversibile nel modo di comprendere l’individuo e le sue vicende reso possibile proprio dalla psicoanalisi, il regista riesce davvero a interpretare l’inconscio e i suoi misteri con una visione quasi ossessiva per come scava e interagisce “dentro” a tutti i personaggi fino a farla diventare davvero l’inquietante, poderosa chiave di lettura di un’epoca “in mutazione” aperta sul presente.
La pellicola è infatti capace di passare con totale naturalezza dalla specificità della storia che racconta, alla universalità delle sue conseguenze pratiche, che si spingono molto più avanti nel tempo ovviamente, fino a lambire la contemporaneità.
E’ in questo senso e in tale direzione che vanno allora interpretate le vicende che intrecciano i destini di Sigmund Freud, Carl Gustav Jung e di Sabina Spielrein (senza dimenticare le figure tutt’altro che secondarie di Otto Gross e di Emma Jung) che non riguardano soltanto i tormenti d’amore, gli attriti, i tradimenti, le bugie, le trasgressioni e i sotterfugi, ma provano anche a mostrare e far comprendere percettivamente, un pensiero diverso, un differente modo di stare al mondo, un’espressione più moderna e attuale dell’uomo tutta proiettato nel futuro.
Film enigmatico quanto mai, dunque che non vuole offrire risposte, perché quello di cui parla, non è altro che il mistero del nostro essere, il punto interrogativo di una condizione esistenziale che non può essere spiegata, poichè va al di là di ogni tentativo di razionalizzazione, un qualcosa insomma che si potrebbe definire come la pulsione di un corpo che si trasmette attraverso il pensiero o il considerarsi di un‘energia – il pensiero, la mente, l’inconscio - che dal corpo finisce per interagire con l’ambiente (Carlo Chatrian).
La forza dirompente del lavoro del regista, sta quindi proprio nell’aver posizionato questo enigma come se fosse davvero il “cuore” dei suoi personaggi, poiché – e questo emerge chiaramente proprio dalle letture sottotraccia che offre la pellicola - sia Freud che Jung sono alla fine essi stessi le vittime del loro metodo introspettivamente analitico del pensiero, il primo perché nega tutto quanto non rientra nel suo schema concettuale, il secondo perché non risolve la sua contraddizione fra la sua appartenenza a una società benestante e la pulsione a sconvolgere quell’universo di regole (ancora Chatrian).
Ma il vero traghettatore del “contagio”, il seduttore di professione che ha rinnegato la deontologia professionale e rivoltato la disciplina etica per piegarla ad interessi prettamente privati, è proprio il dottore “malato” Otto Gross, quello cioè che con la sua “contaminazione” (del pensiero ovviamente) consente a Jung di compiere materialmente (e finalmente) l’atto carnale del suo desiderio represso che apre definitivamente la porta a una nuova interpretazione della sua ambiguità e dei suoi rapporti non solo con la scienza accademica, ma anche con sua moglie (“fattrice” della prole, da sempre consapevolmente indifferente al tradimento per convenienza sociale ed opportunismo), ce li fa comprendere e li materializza davanti ai nostri occhi.
A Dangerous Method è quindi a mio avviso tutt’altro che un’opera fredda e poco personale (come molti hanno scritto). Possiede infatti una complessa struttura narrativa che si rispecchia “geometricamente” non solo nella composizione molto controllata delle immagini, ma anche nel modo in cui, proprio grazie ai dialoghi, vengono costruite le relazioni fra i personaggi. Mi riferisco ovviamente alle geometrie mutanti (e di nuovo ritorna questa parola) che si formano e si scompongono durante il dipanarsi della storia fra tutte le figure in campo, spesso in un rapporto di forze reciproche e contrapposte dove l’autorevolezza (o anche la fragilità) di ognuna è di volta in volta scardinata e sovvertita proprio dalla natura inconscia del gioco di potere in atto.
Il desiderio e la sessualità sono quindi “snodi” centrali, come già detto, anche se questa volta non è il linguaggio filmico, la “concezione” delle immagini ad essere erotica, esattamente come non è eroticizzante lo stile adottato, tutt’altro: Cronenberg è infatti “ottocentescamente” molto pudico nelle scene di sesso (nel senso che non mostra, ma fa intuire tanto), ed è semmai l’esperienza corporea ancora una volta portata alle estreme conseguenze, a diventare l’elemento mediatico e molto articolato del desiderio, una percezione anche sensoriale che il regista riesce a veicolare magnificamente, perché (come scrive Alessandra Mallamo) se appartiene a Sabina l’idea di una tendenza all’autodistruzione che si accompagna all’unione sessuale, ciò non è dovuto alle sue pulsioni masochistiche quanto al suo percorso di analisi. Ella sperimenta per prima dunque – anche attraverso il “liberarsi” col sesso - che le parole non sono il luogo in cui ci si esprime, ma bensì quello in cui ci si espone.
E se si parte da qui, da tale prospettiva, è allora proprio la portata sconvolgente delle scoperte dei due studiosi che incide prima di tutto sulle loro vite, a dare adeguato spessore a tutto il tessuto narrativo, perché in questo percorso ancora una volta decisamente “distruttivo”, nessuno dei due – né Freud, né tantomeno Jung - riesce davvero a dare forma concretamente definita alla propria esistenza senza rischiare di cadere nell’abisso, nell’inquietudine (e qualche volta ci finiscono davvero dentro entrambi). Nell’instabilità crescente delle loro reazioni incontrollate infatti, essi pretenderebbero di voler governare l’inconscio, ma dopo averlo letteralmente scoperchiato, portato alla luce e iniziato ad interpretarlo, inciampano purtroppo essi stressi e di continuo, nei sensi di colpa che avrebbero dovuto esorcizzare con le loro scoperte, nelle insicurezze e nelle tempeste emotive, tutti elementi che li porteranno ad entrare in contatto proprio con il lato oscuro del vivere e con le ossessioni (anche persecutorie) che inevitabilmente genera.
Cercano l’ordine e invece trovano il caos, scrive ancora Ivan Moliterni, e non riescono nemmeno a nascondersi perché gli altri capiscono sempre cosa sono davvero e quale strada stanno percorrendo, intuiscono le loro inadempienze e percepiscono gli inutili sforzi che fanno per combattere una battaglia finalizzata a (ri)annullare la conoscenza e la memoria (o almeno a metterla a tacere), a mascherare gli impulsi, che è persa già in partenza e non approda ad alcun risultato. Li porta anzi a “subire” (poiché ormai loro sanno, e sono coscienti di sapere) il ritorno crudele e annientante del rimorso.
Qui dentro dunque non c’è solo lo scontro della scienza con due concezioni che da un certo momento in poi divergono clamorosamente, fino a diventare quasi inconciliabili, ma anche e soprattutto quello di due differenti classi sociali (Jung è ricco ed ariano; Freud è ebreo e non altrettanto agiato) che entrano inesorabilmente in rotta di collisione (vedi al riguardo la scena “fondamentale “ sul transatlantico col quale stanno traghettando in America “la nuova peste”.
Due intelligenze dunque che non si incontrano più e si combattono, che si esprimono quasi in una diversa lingua, ed è certamente anche questo differente modo di intendere le cose che diventa a sua volta una più sottile e dissimile forma di violenza (Freud che si rifiuta di raccontare il sogno, per esempio), sicuramente di maggiore entità e portata (soprattutto più traumatica) di quella fisica…
Di disparità fra le classi sociali, parla poi e per l’appunto proprio Freud, quando accenna a una pericolosa attrazione (che anticipa tutta la dolorosa parabola del novecento) fra dottori ariani e pazienti ebree, quasi a voler sottolineare che la storia della violenza è inscritta in quella che ha dato origine al pensiero moderno (Carlo Chatrian), fa parte imprescindibile del suo DNA.
Nello scontro portato alle estreme conseguenze tra segni psichici puri e all’inizio quasi paralleli e poi fortemente contrastanti come quelli raffigurati da Jung e Freud (il figlio prodigo e il padre si potrebbe dire, il cristiano e l’ebreo, il mistico e il razionale) è chiaro ed evidente allora che fra i due il personaggio più cronenberghiano è Carl Jung (mirabilmente tratteggiato con la maiuscola e “trattenuta” prova di un Michael Fassbender ancora una volta al top delle sue prestazioni attoriali), inseguito – quasi perseguitato - dalle proprie paure e dalla propria ambizione, ma che non potrebbe esistere e assumerebbe una dimensione tanto centrale, se non avesse di fronte l’altrettanto straordinario Freud di Viggo Mortensen, figura altrettanto emblematica e ugualmente monumentale, da lui resa con la fredda razionalità della ragione, e indispensabile “controcanto” dialettico per fare prendere coscienza anche allo spettatore, dei limiti della civiltà occidentale perché lo scontro intellettuale che contrappone i due scienziati divisi proprio tra mito e cultura, riguarda davvero tutta la parabola formativa, sociale e costruttiva delle coscienze, dell’intero novecento, con la costante contrapposizione sempre presente e mai risolta, tra il delirio sciamanico della parola di Dio e il controllo razionale della narrazione romanzesca, fra la tentazione (di Jung) di voler scendere alle radici del comportamento umano, fino all’essenza che porta alla liberazione, e la saldezza culturale di un Freud, che discerne ed esplora la psiche in maniera del tutto diversa, e soprattutto non prova a ridefinirla atteggiandosi a divinità (Roberto Manassero).
Della prova eccellente dei tre protagonisti ho già praticamente riferito sopra, ma restano ancora da citare (sarebbe un imperdonabile torto non farlo) per lo meno la grifagna, imperturbabile, opportunista Emma Jung disegnata da Sarah Gadon e l’ottimo “cameo” tutt’altro che marginale di un Vincent Cassel in stato di grazia quale Otto Gross.
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