Regia di David Cronenberg vedi scheda film
Se il cinema fosse come il vino, e si potesse degustarlo come fanno i sommelier, cercando di riconoscerne la qualità senza alcun riferimento, eccezion fatta per la consistenza organolettica della bevanda, allora si farebbe fatica a riconoscere nella trasposizione cinematografica della piecè di Christopher Hampton, “The talking cure”, il tocco di David Cronemberg.
Eppure la liaison tra Sabina Spielrein e Carl Jung, ed in sottordine anche il confronto tra due menti complesse come quella dello psichiatra svizzero e del suo mentore, il famoso Sigmund Freud, aveva più di uno spunto capace di conquistare l’immaginario del regista canadese: primo fra tutti il contrasto tra le pulsioni della carne, ancestrali ed irrefrenabili, quella di Sabina, minate alla base da un educazione repressiva e dominante, così come quelle di Jung, inibito per convenienza (la ricchissima moglie ne sovvenzionò gli studi e le ricerche) e cultura, con la razionalità di un metodo, la psicanalisi, che vorrebbe controllarle. Una dicotomia che sotto diverse forme è da sempre uno dei fattori generativi del suo cinema ed insieme l’utopia destinata a schiacciare i personaggi delle sue storie. E poi l’attrazione verso una sessualità fisicamente difficile (Crash, M Butterfly solo per citare alcuni esempi) qui rappresentata dal piacere masochista di Sabina, ed espressa in maniera anticonvenzionale. Per non parlare della costante presenza di un umanità al limite, sempre sull’orlo della follia per le conseguenze di una diversità che emargina perché non se ne può parlare, come accade a Jung allontanato da Freud per divergenze ideologiche e costretto ad un esilio dorato, ed a Sabina, quando nel pieno della nevrosi di cui si sente in colpa, invoca per sé la reclusione dal mondo.
Sul piano pratico queste tematiche si traducono in una trasposizione che non concede nulla sul piano dell’eversione visiva e concettuale: nella perfezione della ricostruzione d’epoca, nell’attenzione degli ambienti e dei costumi, il nodo psicanalitico si scioglie in conversazioni tra gentiluomini irrigiditi dentro abiti troppo stretti, e nei gesti scomposti di una donna che sembra posseduta dal demonio. Segni esteriori che rimangono tali. Non riescono a penetrare il muro della convenzione, reale, quella vigente all’epoca dei fatti raccontati (siamo nell'Europa dei primi del 900) e cinematografica, quella del melò, genere a cui appartiene il film.
Sullo schermo rimane più che altro il ritratto di due uomini distanti dalle loro teorie, incapaci di dargli seguito sul piano pratico, con Freud interessato a salvaguardare l’istituzionalità della sua idea idea ed invidioso dell’agiatezza economica del suo delfino, e Jung, borghese per sua stessa ammissione, prima capace di sconfessare il suo credo cedendo alla passione, e poi spettatore passivo di scelte che non riesce a fare per mancanza di coerenza. La sovrastruttura, presente persino nel paesaggio naturale, così composto da risultare astratto, non riesce ad entrare in alchimia con le contorsioni dell’animo; a creare il cortocircuito necessario. Se fosse un vino "A dangerous method" avrebbe il gusto di un film di James Ivory, essendo un film, è l’opera di transizione di un artista che sta cercando di capire da che parte andare.
(pubblicata su Roma giorno e notte.it)
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