Regia di David Cronenberg vedi scheda film
Cronenberg sta lì, dietro di noi, seduto sul suo trono di Autore-studioso della psiche e ci osserva meticolosamente mentre con la sua cura delle parole ci contamina d’intelletto e magnificenza sin nell’intimo, penetrando nelle nostre (apparentemente) insondabili pulsioni e perversioni.
A Dangerous Method è una metalinguistica, materica e lucida analisi sulle nebulose e vischiose “contorsioni” patogene, (il)logiche e deformate, della mente e dei suoi effetti sull’involucro-corpo.
Esplorando i consueti anfratti dell’inconscio disturbato e malato e delle deviazioni psicofisiche, il geniale regista canadese mette mirabilmente in scena, nero su bianco - come l’inchiostro che “vive” (e simboleggiato nei titoli di testa e di coda) sulle lettere che si “corrispondono” Freud, Jung e Spielrein - la celebre “disputa” tra i primi due, maestro e allievo, precursore e prosecutore, padre e figlio.
Un rapporto, il loro, germogliato dai semi dell’ammirazione del giovane svizzero nei confronti del fondatore della psicoanalisi, e inesorabilmente mutato in aperta contesa: Freud è rigoroso, pragmatico, è attento all’opinione della comunità scientifica e a porre confini precisi e inalterabili alla malvis(su)ta dottrina che ha creato; al contrario, Jung, che considera eccessiva e sbagliata la pratica di Freud di ridurre ogni problematica solo alla sfera sessuale, è più aperto, dubbioso, desideroso di allargare il campo a teorie e suggestioni spirituali. Per il benessere del paziente, perché non è sufficiente dirgli: <<ecco, tu soffri di questo o di quello, punto.>>; bisogna andare oltre la fredda diagnosi, al di là di uno sterile e bloccato transfert. Ciò, per Freud è indegno, significa solo curare un’illusione instillando un’altra illusione.
Ma il loro contrasto - e qui il film “vola” altissimo - ha origini e sintomi lontani e importanti: Jung è ricco e ariano; l’altro ebreo e non così agiato; inoltre la protervia di Freud, quel suo non raccontare all’amico-allievo il suo sogno per non “minare la propria autorità” (meravigliosa sequenza tra Mortensen e Fassbender) dà il colpo di grazia. Certificato con parole grevi, moleste, quelle cioè scritte nel loro scambio epistolare. Almeno finché non spira anche quello.
In tutto ciò incisivo è il ruolo dell’acuta Sabina Spielrein, dapprima paziente isterica di Jung e poi sua amante (e in seguito medico a sua volta), che funge da ipnotico catalizzatore tra i due, nelle loro aspre contrapposizioni scientifico-personali. Scoperchia caratteri avversi e simili, morbosamente attaccati ai loro dogmatismi. Nevrotici anch’essi.
Se la sceneggiatura si rivela perfetta, con meccanismi ben calibrati a raccontare un’alterata discesa nella metamorfosi di una relazione che ha fatto un pezzo di Storia, Cronenberg, aderendovi compiutamente ed educatamente, impianta le sue prolifiche e cupe allucinazioni e le sue oblique turbe interiori(zzanti), in un continuum spazio-temporale prodigioso.
Ogni scena tra (i superbi) Viggo Mortensen e Michael Fassbender ha una resa incredibile e spettacolare: percepiamo i loro sguardi (quelli veri, dietro la facciata) e pensieri, che si esplicitano in maniera sublime anche nei momenti più “normali”, come nel giro in barca, con Freud costretto in una posizione d’inferiorità a guardare verso l’alto l’”altro“ (sé?).
Concorrono a comporre un film meraviglioso un’avvolgente fotografia e una riuscita colonna sonora. Prova straordinaria di tutti gli interpreti, a partire dai due protagonisti, con una menzione speciale per Vincent Cassell (in un breve ruolo), sempre ottimo, e per una bravissima Keira Knightley alle prese con una caratterizzazione rischiosissima.
Gran film insomma, che va rivisto più volte per studiare/lasciarsi stupire dalle piccole grandi sottigliezze (di parole, suoni e immagini) disseminate abilmente lungo tutta la pellicola.
David Cronenberg grazie di esistere.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta