Regia di David Cronenberg vedi scheda film
Pur nel suo tono classico e composto, il film non mi ha del tutto convinta: David Cronenberg, ai miei occhi, ha sminuito l’importanza degli studi junghiani, enfatizzando sia le intuizioni di Otto Gross, sia il ruolo di Sabina Spielrein e privilegiando i toni del mélo un po' pettegolo.
Non ho motivo di dubitare delle parole del regista circa l’accuratezza della sua ricostruzione storica: non solo alcune delle numerosissime lettere tra i due padri della psicanalisi sono state accuratamente meditate e trasposte nel film, ma la ricostruzione stessa degli ambienti, dei costumi e dei luoghi è precisissima e ampiamente documentabile.
Ritengo, però, che il vissuto di ciascuno di noi sia costituito in parte dalle nostre private storie – d’amore, di odio, di personali idiosincrasie – e in parte dagli studi e dal background familiare e culturale che pesano – almeno in ugual misura – sulla personalità di ciascuno.
Per questa ragione la diversità delle rispettive culture d’appartenenza non può non aver avuto un ruolo centrale sul divergere delle strade intraprese da Freud e da Jung.
Mi chiedo, perciò, se tanta accuratezza scrupolosa aumenti la possibilità di conoscere meglio il pensiero freudiano e quello junghiano ovvero le elaborazioni culturali dei due grandi studiosi degli aspetti oscuri del comportamento umano, i quali separarono i loro percorsi per la diversa visione che Jung (Michael Fassbender) veniva elaborando circa il concetto di libido.
Allo stesso modo non appare chiaro quale sia stato il ruolo di Otto Gross (Vincent Cassel) nella teorizzazione junghiana e quale quello di Sabina Spielrein (Keira Knightley).
Il regista sembra averli sovradimensionati, rispetto alla realtà storica facendo derivare dall’incontro di Jung con questi due suoi pazienti – che certamente per lui furono inquietanti soggetti di studio, che lo turbarono anche emotivamente – addirittura il suo emanciparsi da Freud (Viggo Mortensen), riuscendo nell’impresa quasi impossibile di parlare di Freud sottovalutando l’importanza della cultura ebraica nella teorizzazione del “complesso di Edipo”.
Nel film, infatti, se ne parla poco e in modo impreciso, dando luogo a un fraintendimento, allorché nel dialogo tra Freud e la Spielrein lo studioso viennese pare invitarla a prendere le distanze da Jung, per riacquistare l'identità ebraica, grazie alla cultura d’appartenenza: “noi ebrei non dobbiamo mai fidarci di un ariano”* e insistendo più sulla diffidenza pettegola che sulla corposa realtà culturale sottesa alla psicanalisi freudiana.
Un film, perciò, ben recitato, (sia pure con qualche eccesso enfatico da parte di Keira Knightley), molto “parlato”**, confezionato con cura, che ci mostra una Vienna – città da sempre, per me, fra le meno amate al mondo – bellissima e luminosa, grazie alla suggestiva fotografia di Peter Suschitzky, dal quale i due geni escono umanamente - e anche professionalmente - alquanto malconci.
Peccato!
* citazione da Natalia Aspesi (La Repubblica, 3 settembre 2011)
** dalla piecè di Christopher Hampton – “The talking cure”– che fu anche lo sceneggiatore del film.
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